Se i dazi americani sui farmaci diventassero una misura concreta, per Marcello Cattani che guida la Farmindustria ed è anche amministratore delegato per l’Italia della multinazionale Sanofi, provocherebbero un effetto boomerang per gli stessi cittadini americani, oltre a causare perdite significative per le imprese che operano in Italia e più in generale in Europa.

Presidente Cattani quanto valgono le esportazioni dell’industria farmaceutica italiana verso gli Stati Uniti e quanto perderebbero le imprese se i dazi americani si concretizzassero?

La farmaceutica italiana fattura molto oltre i 50 miliardi di euro e la quota di export è centrale: è di oltre il 90% della produzione. Di questa quota il 70% è diretta verso l’Europa e dall’Europa anche verso gli Stati Uniti. Il 20% va direttamente verso gli Stati Uniti. Il resto, invece, verso Asia e resto del mondo. Considerando i primi 11 mesi del 2024 il saldo verso gli Stati Uniti è stato positivo per 7,7 miliardi di euro: abbiamo importato farmaci dagli Stati Uniti per 1,2 miliardi e ne abbiamo esportati per 8,9. Nei 12 mesi il dato ci proietterà oltre i 10 miliardi. Stimare una perdita è difficile, ma indubbiamente potrebbe essere significativa. Per questo il Governo italiano insieme alla Commissione Ue, con grande rapidità devono lavorare affinché i dazi non si concretizzino sui farmaci. La risposta però non può essere alzare un muro di dazi, deve esserci un’azione politica di moral suasion e di consapevolezza del valore dell’industria farmaceutica per la Ue ma anche per gli stessi Stati Uniti: i primi a fare le spese dei dazi sarebbero gli stessi cittadini americani. Abbiamo grande fiducia nell’operato del Governo, della premier Giorgia Meloni e del ministro Antonio Tajani.

Quale crede che potrebbe essere la reazione delle imprese?

La prospettiva peggiore sarebbe un effetto che ci porterebbe indietro nel trend di crescita, a causa di quel 25% di quota di dazi annunciati che le imprese dovrebbero ribaltare sui clienti finali americani. Un primo effetto potrebbe essere il ribaltamento del dazio sul prezzo finale, avendo le imprese già oneri e costi della produzione più alti di quasi il 30% rispetto a tre anni fa, per effetto dell’aumento della bolletta energetica, dei costi degli imballaggi primari e secondari realizzati in carta, alluminio, plastica e vetro e poi degli stessi principi attivi che arrivano da Cina e India. Il rischio è alto e l’impatto economico significativo, se l’industria farmaceutica è la prima per esportazioni lo deve anche agli Stati Uniti. Si creerebbero dei meccanismi distorsivi molto forti che minerebbero la crescita dello stesso prodotto interno lordo dell’Italia e dell’Europa.

Pensando all’avvio di un’impresa farmaceutica, è realistico dire alle aziende venite a produrre negli Stati Uniti?

Credo che sia utopistico, nel nostro caso le competenze a livello scientifico, tecnologico e industriale necessarie per sviluppare la produzione farmaceutica e di vaccini sono le più evolute. Non si tratterebbe quindi solo di costruire uno stabilimento e riempirlo di tecnologie industriali, ma di portare competenze che oggi sono il top in Italia ed Europa. È più facile trovare in giro per il mondo armamenti che farmaci, la leva politica deve essere forte per difendere la nostra industria farmaceutica.

Quanto pesa l’export farmaceutico del nostro Paese?

Se guardiamo alla crescita dell’export nel 2024 sul 2023, il primo settore per crescita è la farmaceutica con il + 9,5%, un dato che si confronta con un calo del – 0,4% del resto della manifattura. I farmaci e i vaccini nel periodo gennaio-novembre del 2024 hanno totalizzato oltre 27 miliardi di euro di importazioni e 46 di esportazioni, con un saldo positivo di 19 miliardi. Il dato è fermo a novembre e se consideriamo anche dicembre sicuramente supereremo i 50 miliardi di euro. Questo rappresenta un’arma politica per il Governo italiano e per la Commissione europea che deve cambiare passo. È pur vero che l’amministrazione Trump potrebbe agevolare l’installazione di produzione farmaceutica negli Stati Uniti, ma questo avrebbe tempi molto lunghi, servono dai 2 ai 5 anni per rendere operativo un sito produttivo. C’è quindi il rischio concreto che nell’applicare un dazio gli stessi americani nell’immediato si ritrovino senza i farmaci di cui si approvvigionano dall’Europa e dall’Italia.

Non è la prima volta che Trump annuncia i dazi sui farmaci. Se in passato non si sono concretizzati, crede che sarà diverso oggi?

L’annuncio dei dazi in parte rientri nella strategia anche di proclami. La minaccia resta concreta, però il messaggio insito è un’accelerazione negli effetti protezionistici sul mercato americano e in quei settori che hanno più alto valore strategico e fanno più innovazione ossia difesa, intelligenza artificiale e farmaceutica. È una partita economica importante, non dimentichiamo che il leader cinese Xi Jinping all’inizio del suo mandato ha detto che gli investimenti sulla farmaceutica sono “un campo di battaglia fra potenze”. L’Italia è un centro di eccellenza produttiva a livello mondiale e gli Stati Uniti lo hanno capito bene, approvvigionandosi dai nostri produttori. Del resto investiamo oltre il 20% dei ricavi in ricerca e sviluppo. Questo si traduce in innovazione e in brevetti.

Sul fronte interno cosa sta accadendo?

Dobbiamo cogliere oggi l’opportunità per cambiare la governance, per avere regole nuove e meno oneri, altrimenti rischiamo di perdere il grande vantaggio competitivo. Dobbiamo continuare a collaborare col Governo affinchè l’export cresca, così come cresca il mercato interno, creando condizioni migliori e una nuova Governance per il settore, riducendo gli oneri per le imprese. Sui diversi payback molte aziende stanno facendo ricorsi al Tar perché hanno raggiunto un livello insostenibile. Nel 2025 il payback sarà oltre 2,5 miliardi di euro e questo scoraggia gli investimenti e sposta la competitività negli altri Paesi.