22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

economia

di Giovanni Belardelli

Il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori è troppo marginale nella complessa struttura di governo Ue. Il rischio è esaltare il carattere funzionariale-burocratico di istituzioni contro cui è facile che crescano i populismi

L’Europa è mortale? Così un giornale non sospettabile di antieuropeismo come Le Monde ha intitolato un lungo articolo sulla situazione attuale dell’Unione europea. Per sottolineare il rischio di fine imminente che la minaccia e insieme l’inconsapevolezza che di ciò sembriamo avere, l’autore dell’articolo, Arnaud Leparmentier, ha paragonato la nostra condizione a quella che Stefan Zweig, nel Mondo di ieri, attribuiva all’impero asburgico alla vigilia del fatidico giugno 1914: «Tutto nella nostra quasi millenaria monarchia austriaca sembrava duraturo e lo Stato stesso appariva il sommo garante di questa ininterrotta solidità». Le cose, come è universalmente noto, avrebbero preso tutt’altra direzione. Non è la prima volta che vengono formulati paragoni del genere: tre anni fa un centro studi americano, il Pew Research, definì la Ue come «il malato d’Europa», riprendendo l’espressione che un tempo si usava per l’impero ottomano (e anche in questo caso è ben noto come andò a finire). Eppure la nostra discussione pubblica sembra non prendere troppo sul serio questi segnali di allarme e predilige temi e toni legati alla quotidianità: la polemica Merkel-Draghi, la guardia di frontiera europea, l’ultima dichiarazione di Juncker sulla richiesta italiana di flessibilità e così via. Tutte cose rilevanti, non c’è alcun dubbio, e tuttavia che danno vita a dibattiti e analisi non adeguati alla crisi di fondo che l’Unione europea sta attraversando. Una crisi che, a partire dal 2008, è esplosa proprio sul terreno che più costituiva il legittimo vanto degli europei: l’economia. Ma anche una crisi che in questi ultimi anni si è andata allargando ad altri terreni: dall’incapacità di dar corpo a una politica estera europea alla indisponibilità di molti Paesi dell’Ue ad applicare gli accordi sul ricollocamento dei richiedenti asilo.

Il modo prevalente in cui la maggioranza dei media, dei politici, degli esperti di vario genere affronta ciascuno dei terreni di crisi è caratterizzato da forme verbali esortative: di fronte a Stati che ripristinano i controlli alle frontiere si dichiara che non ci devono essere muri; di fronte alle migrazioni di massa si afferma che si deve realizzare la redistribuzione dei migranti; che si deve attuare un servizio di sicurezza europeo; anzi, più in generale, una vera unione politica europea. Il discorso europeista, in sostanza, corrisponde sempre più a quella forma verbale esistente in alcune lingue che è l’ottativo: una forma che esprime un desiderio, un auspicio e poco si cura del fatto che la sua realizzazione trovi ostacoli spesso non superabili. Primo fra tutti il fatto che, su ciascuna delle soluzioni appena citate, è ampiamente documentato il disaccordo dell’opinione pubblica di questo o quel Paese.

Ma di ciò che pensano i cittadini europei — della loro crescente disaffezione per le istituzioni comunitarie — generalmente poco ci si cura. A volte, anzi, si è teorizzato che non vi si debba prestare troppa attenzione: quei cittadini, e i loro governi, avrebbero la colpa di non riuscire a prescindere dall’orizzonte nazionale, soltanto negando il quale l’Europa può avere un futuro. Sta probabilmente qui, nell’illusione che gli Stati nazionali fossero entrati in una crisi definitiva dopo il 1945 e fossero perciò destinati a una rapida scomparsa uno dei limiti culturali originari dell’europeismo ufficiale. Non solo perché quella previsione non si è realizzata, ma anche perché ad essa si accompagnava la mancata comprensione del nesso tra Stato nazionale e democrazia. Sulla scia di John Lennon possiamo auspicare che in un futuro più o meno lontano non sia più così («Imagine there’s non countries, it isn’t hard to do…»), ma fino a oggi lo Stato nazionale ha rappresentato (e continua a rappresentare) la premessa e l’ambito di esistenza della democrazia. Stigmatizzare il fatto che la cancelliera Merkel sia tornata indietro rispetto al suo iniziale atteggiamento di apertura verso gli immigrati per seguire l’orientamento dell’opinione pubblica tedesca ha poco senso. Cos’altro mai dovrebbe fare il capo del governo in un regime democratico?
Ma la democrazia, il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori, è marginale se non assente nella complessa struttura di governo delle istituzioni europee. Secondo alcuni ciò sarebbe addirittura un bene, perché solo il carattere funzionariale-burocratico di quelle istituzioni permetterebbe di fare il superiore interesse europeo contro gli interessi nazionali. Prima o poi bisognerà riconoscere che è una strada pericolosa, che rischia di allontanare ancora di più i cittadini dalle istituzioni europee, lasciando ai vari populismi antieuropeisti — dal partito di Farage ad Alternative für Deutschland — la non disprezzabile risorsa di potersi presentare come i paladini della democrazia.

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