Partito democratico e Movimento Cinque Stelle oggi possono unirsi dietro una candidatura locale dignitosa; non possono rappresentare una maggioranza di governo. Prima dovranno trovare un’intesa sulle questioni su cui si vota alle Politiche: a cominciare dalle tasse
Sommare e confrontare i voti del centrodestra e del centrosinistra è interessante, ma inutile. Perché il centrodestra è una coalizione, per quanto rissosa; il centrosinistra no, o non ancora. Partito democratico e Movimento Cinque Stelle oggi possono unirsi dietro una candidatura locale dignitosa; non possono rappresentare una maggioranza di governo. Prima dovranno trovare un’intesa sulle questioni su cui si vota alle Politiche: a cominciare dalle tasse.
Da trent’anni, i rapporti di forza tra i due schieramenti sono abbastanza equilibrati, con una certa alternanza tra le Amministrative — in cui spesso il centrosinistra esprimeva candidature considerate dall’elettorato più convincenti — e le Politiche, dove il centrodestra ha perso solo quando si è diviso. Il motivo è semplice: alle Politiche si vota sulle tasse; e tradizionalmente la maggioranza degli italiani cerca un campione in grado di sconfiggere la sinistra, che delle tasse è considerata l’emblema. Messo in soffitta lo scudo crociato, ci si è affidati prima a Berlusconi — qualcuno a Bossi e a Fini —, poi a Salvini, ora alla Meloni; ma nel 2013 e nel 2018 molti votarono Grillo pur di non vedere il Pd al governo.
Il Movimento 5 Stelle nasce contro la vecchia politica, ma in primo luogo contro il partito additato come il partito di sistema, dell’establishment, del «regime»: il Partito democratico. Il Vaffa Day si fece non a caso a Bologna. Nel grande comizio del 2013 in piazza San Giovanni — l’ultimo vero comizio visto in Italia —, Grillo additò il nemico in Bersani, definito «Gargamella» e «parassita». Per lui Bersani era peggio di Berlusconi: «Berlusconi si vede che mente; la sinistra finge di opporsi e poi governa con la destra, si sono passati la borraccia come Coppi e Bartali…». Coerentemente, dopo il voto Grillo disse no a Bersani in streaming; e dopo il boom dei 5 Stelle nel 2018 il Pd disse no a Di Maio, che si alleò con la Lega.
Pd e 5 Stelle si sono messi insieme solo nel 2019, per non far vincere le elezioni anticipate a Salvini: un po’ poco come collante. Se ora volessero riprovarci, dovrebbero trovare un terreno comune. Il tema non è solo la politica estera, che divide anche la destra: la Lega simpatetica con Putin, Fratelli d’Italia con la Nato. Il tema è l’economia.
Quale idea di sviluppo condividono Pd e 5 Stelle? Cantieri e infrastrutture: sì o no? L’Alta velocità da Brescia a Trieste e da Napoli a Bari si fa o no? (il Ponte sullo Stretto lo diamo per perduto). Il nucleare di quarta generazione è una strada da esplorare o da escludere? Rigassificatori e termovalorizzatori sono una necessità o una parolaccia? L’industria manifatturiera va sostenuta o lasciata a se stessa?
Non solo: un governo Pd-5 Stelle ripristinerebbe il reddito di cittadinanza. Resta da capire come finanziarlo. Con più tasse? E pagate da chi? Dai padroni della Rete e dell’Intelligenza artificiale, che distruggono il piccolo commercio e il lavoro impiegatizio? O — come accade ora — dal ceto medio dipendente e dai pensionati, che tra l’altro sono lo zoccolo duro del Pd? Le aliquote Irpef si tagliano o si aumentano, come fece il centrosinistra subito dopo la precaria vittoria del 2006? Proprio il 2006 rappresenta un precedente pericoloso. All’epoca si misero insieme tutti, da Mastella a Turigliatto, da Dini a Luxuria, pur di battere Berlusconi. Ma, in mancanza di idee chiare, la maggioranza durò appena un anno e mezzo.
Conosciamo bene il momento in cui si creano le coalizioni: quando si pensa di vincere. Nel 2022 il vento tirava a destra; e un po’ tutti, Letta Conte Calenda, pensarono a se stessi, a massimizzare il risultato di lista, dando per scontata la vittoria dell’altro schieramento. Ma se davvero il vento di destra comincerà a scemare, le cose inevitabilmente muteranno. L’importante è non riproporre l’ammucchiata, ma offrire una soluzione nuova e di buon senso alle questioni del Paese.
Non si tratta di normalizzare i 5 Stelle, di riportare all’ovile della moderazione qualsiasi istanza di cambiamento. Al contrario: c’è un’Italia che vuole cambiare. Che vuole più investimenti nella scuola e nella cultura, più occasioni per i giovani, una lotta seria al cambio climatico, una forte iniziativa italiana per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa — unione fiscale, difesa comune — e per la pace sulle frontiere orientali del Continente, dal Mar Nero a Suez passando per Gaza. Alla fine anche Calenda, scottato dall’errore commesso in Sardegna, non potrebbe chiamarsi fuori; e in una situazione di equilibrio pure il 4% può essere decisivo.
Sappiamo già come andranno le prossime elezioni europee. Fratelli d’Italia sarà il primo partito, il Pd il secondo, i 5 Stelle il terzo. La somma di voti tra i due schieramenti sarà più o meno pari. Ma il giorno dopo, nonostante le rivalità personali e le diverse visioni del mondo, i tre partiti della destra ricominceranno a governare. Il rischio è che Schlein e Conte — ma pure Calenda, Bonino, Renzi, Fratoianni, Bonelli…— ricomincino a litigare.