22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Marco Damilano

Il retroscena. L’ex premier resiste a tutti i tentativi di coinvolgerlo nello scontro. Il gelo con Renzi, il pessimismo sulla durata della nuova legislatura e quel richiamo a Ciampi: “Lui sapeva mettersi in discussione”

Ieri mattina alle 12, quando Romano Prodi è sceso dal Frecciargento che lo portava da Bologna a Roma, ad accoglierlo al binario 3 ha trovato un operaio in tuta arancione che lo ha inseguito speranzoso: “Professo’, così nun potemo annà avanti…”. Il lavoratore è in buona compagnia, è solo l’ultimo a strattonare l’ex premier, il fondatore dell’Ulivo, a chiedergli un impegno diretto per evitare che il Pd e il centrosinistra si infrangano alle elezioni del 2018 sulla catastrofe della divisione annunciata.
Prodi è a Roma, ieri un giro intorno alla Camera, una tappa dal barbiere, qualche incontro riservato. Oggi parteciperà a un dibattito sull’Europa con il ministro Carlo Calenda e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, aperto da Paolo Gentiloni. Convegni, seminari, presentazioni di libri. Niente politica, però. Il Professore resiste, è sfuggito al pressing della minoranza Pd di Andrea Orlando che gli chiedeva una presa di posizione dopo il risultato delle elezioni siciliane: “Se dicessi anche una sola sillaba verrebbe interpretato come un mio desiderio di tornare in campo”. In privato, confida la sua preoccupazione. “È una tragedia”, dice agli amici più stretti. Parla dell’Italia, non del Pd, ma chissà che le due cose non coincidano. “Quale progetto ha l’Italia in Europa, nel Mediterraneo? Ne parlerà qualcuno nella prossima campagna elettorale? Qualche giorno fa un investitore di un importante fondo di Singapore mi domandava notizie su quello che succederà, ma tutto questo nel dibattito non entra, non esiste”.
La tenda prodiana resta piantata lontana dalle vicende interne del centrosinistra. Almeno in apparenza. In realtà, c’è stato un momento prima dell’estate che sembrava potesse realizzarsi l’operazione nuovo Ulivo: un listone con il Pd di Matteo Renzi, la formazione di Giuliano Pisapia e gli scissionisti di Mdp (escluso D’Alema) per puntare al premio di maggioranza che sarebbe scattato superando la soglia del 40 per cento, prevista nella legge elettorale in vigore in quel momento, il Consultellum. Del nuovo Ulivo Prodi avrebbe fatto il padre nobile. Di questo avevano parlato il Professore e Arturo Parisi con Renzi il 16 giugno, l’ultimo faccia a faccia tra l’ex premier e il segretario del Pd. Renzi si era impegnato a tentare, poi è calato il gelo. La tenda di Prodi si è allontanata. E il Professore ha cominciato ad assistere con pari disincanto agli altri tentativi di cui pure qualcuno gli attribuisce la paternità: Pisapia e la sua lunga assenza dalla scena, Bersani e la sua voglia di rivalsa su Renzi, un’ipotetica lista europeista di Emma Bonino. L’approvazione del Rosatellum ha fatto il resto: “Non ci saranno coalizioni, ma al massimo apparentamenti “, osserva deluso Parisi. “Ci riproveranno a chiedere l’appoggio di Romano. Ma non c’è più tempo. E non c’è fiducia. Renzi non si fida troppo di noi e noi non ci fidiamo di lui”, dice un prodiano di rango. Per ora, dunque, Prodi resta fuori. Al pari degli altri nomi che contano del ristretto club dei fondatori del Pd: Walter Veltroni, Enrico Letta.
Una sfiducia partita almeno un anno fa. Il 14 novembre 2016, nella Sala della Maggioranza in via XX Settembre, nel cuore del ministero dell’Economia, per commemorare Carlo Azeglio Ciampi a due mesi dalla scomparsa si riunì un parterre di relatori composto da Prodi, Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, il ministro Pier Carlo Padoan, il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco, di fronte a Sergio Mattarella. C’era ancora il governo Renzi, ma nessun renziano di rango era presente in sala, nessun ministro tranne il padrone di casa Padoan e l’allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal tavolo una commemorazione non formale. “Per decidere bisogna conoscere, per discutere bisogna accettare di essere messi in discussione “, disse Prodi. “Chiesi a Ciampi di entrare nel governo con profondo imbarazzo, perché era già stato presidente del Consiglio, lui accettò di scendere uno scalino, cosa non facile”. Draghi elogiò il metodo Ciampi di leadership, “un particolare modo di gestire il governo, di lealtà e di rispetto tra i ministri”, esaltando i risultati raggiunti dal governo Prodi. E Amato “la competenza tecnica e l’acume politico “.
Al referendum sulla Costituzione mancavano ancora due settimane, ma in quegli interventi c’era già il passo successivo, l’identikit e il profilo di un governante molto lontano da Renzi, più simile semmai a quello di Gentiloni, come se la vittoria del No fosse già stato acquisita. Lo strappo tra Renzi e un pezzo di establishment legato al centrosinistra e i padri fondatori del Pd si è consumato in quelle settimane. È prevedibile che nei prossimi giorni il pressing su Prodi si farà asfissiante, da parte di Renzi e dei bersaniani che lanciano Pietro Grasso. Ma la coalizione per ora non si vede ed è lontanissima dal nuovo Ulivo vagheggiato mesi fa. Non c’è un candidato premier e non c’è un’alleanza. E in tanti scommettono che la prossima legislatura sarà breve, brevissima, forse più corta di quelle 1992-94, 1994-96, 2006-2008. È più opportuno restare in attesa di un secondo giro, che potrebbe portare il nome di Mario Draghi. L’operaio del treno, insomma, dovrà ancora portare pazienza, e non solo lui. Sempre che, intanto, non venga giù tutto.

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