Dopo 25 anni si torna a parlare della trattativa tra D’Alema e Berlusconi che alla fine non portò a niente: ma ha senso?
«Io quando entro lì dentro sento una vocina che mi chiama papà. Mi sento veramente un Padre Costituente». Maiuscole iniziali. Come dimenticarlo, Silvio Berlusconi, quel giorno alla fine di ottobre del ’97? Perché sì, il Cavaliere pareva davvero aver deciso di puntare su Massimo D’Alema per cambiare insieme la Costituzione. Certo, prima ne aveva detto peste e corna: «Ho un solo nemico: il comunista D’Alema». «Ho deciso di scendere in campo una sera, vedendo alla tivù un dibattito in cui quel signore lì ghignava sotto i baffetti». «A D’Alema non affiderei nemmeno la cancelleria di un ufficio: è uno che usa lo Stato come il garage di sua zia». «Non credo che gli italiani vogliano farsi dominare da un regime governato da un funzionario di partito che ha fatto la scuola delle Frattocchie, non si è laureato, ha lanciato Molotov ed è andato a Mosca 33 volte». Finché aveva ribaltato tutto, decidendo di puntare proprio su di lui fino a dare vita, l’uno e l’altro, a scambi di amorosi sensi: «D’Alema mi sembra sincero». «In Berlusconi vedo la buona volontà». «Caro Massimo, per fortuna che c’è lei. Con lei si può parlare». «Umanamente il capo del Polo è proprio simpatico»… A benedire l’«amicizia» fu il cerimoniere Emilio Fede: «Loro in realtà si piacciono. Solo che le famiglie non vogliono».
Come sia andata a finire si sa. Mesi e mesi di passi avanti e passi indietro, battute e battutine. «Questa Bicamerale è un’automobile bella, comoda, spaziosa, dove ognuno può trovar posto, peccato non possa camminare perché ha le ruote quadrate e forse è anche senza serbatoio» (Francesco Cossiga). «Eleggeremo un presidente garante e senza poteri: il notaio più votato al mondo» (Mario Segni). «La bicamerale è uno zombie, non credo che vorranno portarla avanti perché con l’arrivo del caldo puzzerà pure» (Giuliano Urbani). «Non c’è dentista che non pretenda di entrare nella Bicamerale e dire la sua. Si profila una riforma figlia del mulo» (Filippo Mancuso). Finché Silvio Berlusconi, che si era spinto a lodare D’Alema per «aver mantenuto sul punto cruciale del presidenzialismo un atteggiamento di garanzia e imparzialità assolutamente encomiabile» decise di chiuderla lì. Chi aveva torto? Chi aveva ragione? E ha un senso chiederselo, un quarto di secolo dopo?