Israele dice di aver ucciso 13 mila combattenti, di cui circa 120 tra dirigenti, comandanti e capi di battaglioni. Ma Sinwr e Deif guidano ancora il movimento
Sabato. Una pattuglia di mujaheddin esce da un tunnel scavato all’interno di un edificio danneggiato ed apre il fuoco con i lanciagranate RPG uccidendo quattro riservisti di pattuglia nella zona di Khan Younis. Qualche ora dopo l’esercito annuncia la distruzione di tre tunnel, nella stessa area: uno entrava per centinaia di metri in territorio israeliano. La cronaca bellica, dopo sei mesi di invasione, è sempre la stessa e non si intravede una fine.
I numeri
I portavoce hanno fornito i loro dati sul conflitto. L’Idf sostiene di aver ucciso nella Striscia 13 mila combattenti, di cui una ventina responsabili di battaglioni e 89 comandanti di compagnia, più qualche dirigente politico o della sicurezza. Scompaginati ma non sconfitti del tutto 20 dei 24 battaglioni. Tra i grandi ricercati sono stati eliminati Saleh al Arouri in Libano e forse Marwan Issa, definito il numero tre del movimento (ma non c’è conferma). Degli altri, come Yahya Sinwar, e il capo militare Mohammed Deif non si hanno notizie precise e dunque è probabile che dirigano la resistenza dai bunker nella zona meridionale.
Le ultime trincee
L’area di Rafah, al confine con l’Egitto, e Khan Younis sono le ultime trincee dei leader indicati come target di alto valore. Offerta di taglie, spie, intelligence sofisticata e caccia «elettronica» non sono bastate per individuarli. Dodicimila i razzi sparati verso lo Stato ebraico da Gaza. I numeri di Hamas calcolano in 33 mila le vittime civili, quanto ai militanti ne avrebbe perso 6 mila. Circa 600 i soldati israeliani caduti in battaglia e 133 gli ostaggi. Sempre aperto lo scontro al nord con Hezbollah: morti 271 operativi della fazione sciita — compresi alcuni quadri importanti — e 18 militari. Centinaia di migliaia gli sfollati, i profughi, i senza casa.
La tattica
L’offensiva decisa dal governo Netanyahu è partita spedita, ha permesso di prendere zone consistenti di territorio dove è stato imposto un controllo «strategico» che però non ha impedito il ritorno dei guerriglieri. Da un lato l’esercito ha avuto meno perdite di quelle temute all’inizio, dall’altro ha dovuto affrontare un nemico sfuggente che punta a logorarlo. I palestinesi hanno disperso le loro unità in piccoli nuclei, team di 4-5 elementi, armati di granate, mitragliatrici, fucili da cecchino e razzi anti-tank portatili con doppia carica realizzati nelle piccole officine disseminate ovunque.
Sono queste squadre a ingaggiare le truppe, a tendere imboscate lungo le nuove linee logistiche create dall’Idf in numerosi punti della Striscia. La staticità — obbligata — di alcuni reparti favorisce le incursioni delle Brigate al Qassam e delle altre fazioni. Sempre pericolosi gli ordigni «improvvisati» e le mine.
I tunnel
Infiniti. Gli israeliani hanno fatto saltare centinaia di «entrate», hanno neutralizzato molte gallerie, eppure ne trovano ancora. La minaccia era nota ma è stata sottostimata la capacità dei genieri di Hamas nel creare un network formidabile, con diramazioni di centinaia di chilometri. Cunicoli per attaccare, per difendersi, per nascondere prigionieri e ufficiali, per tenere al sicuro l’arsenale. Allagamenti, uso di sostanze speciali, bombardamenti aerei, forze speciali hanno rappresentato una risposta parziale.
Il fronte esterno
Lo Stato ebraico ha visto moltiplicarsi i fronti. Oltre al Libano, ci sono insidie da Siria, dall’Iraq e dallo Yemen. L’asse di milizie sponsorizzato dall’Iran preme come mai prima d’ora, usando sistemi a lungo raggio, dai missili ai droni. Israele ha ribattuto liquidando alcuni alti ufficiali dei pasdaran, figure preziose, definiti «ambasciatori-guerrieri». Una campagna di omicidi mirati che, però, lo espone a una temuta rappresaglia.