22 Novembre 2024

«Intelligenza artificiale» è una una espressione che si adopera in mancanza di meglio e sulla base di una vaga somiglianza, come quando si parla di «gamba di una sedia» o di «collo della bottiglia»

Nel momento in cui le nostre preoccupazioni si rivolgono verso l’intelligenza artificiale, come nell’IA act promulgato in questi giorni dall’Unione Europea, diamo per scontato di sapere che cosa sia l’intelligenza naturale, il che è tutt’altro che ovvio. È da quella opacità iniziale che derivano molti equivoci che viziano il dibattito. Propriamente parlando, i problemi di una comprensione della intelligenza artificiale sono due. Da una parte, c’è la vaghezza del termine «intelligenza». Dall’altra, c’è la tendenza ad antropomorfizzare le prestazioni della intelligenza artificiale, che diviene tanto più problematica in quanto, come abbiamo appena detto, l’intelligenza naturale, l’intelligenza «umana» è tutt’altro che una nozione chiara.
Chiediamoci prima di tutto che cosa sia l’intelligenza, e ci rendiamo conto che si apre davanti a noi un territorio assolutamente indeterminato. «Intelligente» viene confuso con «vivente» (quando ci si chiede, per esempio, se ci siano forme di vita intelligente su un qualche pianeta diverso dalla Terra). Indica minimalisticamente delle prestazioni elementari come rispondere a uno stimolo, per cui si può parlare di comportamento intelligente da parte di animali non umani. Al tempo stesso, però, la norma della intelligenza è costruita essenzialmente sulla forma di vita umana, per cui non contano come prove di intelligenza superiore il fatto che molti animali non umani possiedano degli apparati sensoriali molto più acuti e performanti dei nostri.
E anche quando ci decidiamo a concentrarci sulla sola intelligenza umana, trovare delle definizioni chiare risulta tutt’altro che facile. Perché siamo pienamente disposti ad ammettere che qualcuno abbia una intelligenza superiore alla media nei calcoli o nel gioco degli scacchi e, insieme, difetti di intelligenza sociale. Scopriamo così che l’intelligenza è una realtà complessa, che si dice in molti modi (intelligenza astratta, intelligenza sociale, intelligenza emotiva ed empatia…) nessuno dei quali, in ultima istanza, risulta applicabile alla intelligenza artificiale, che appare così come una estensione antropomorfizzata di abilità che possiedono le macchine e che in qualche caso richiamano delle funzioni umane, anche se nessun umano è effettivamente in grado di fornire le prestazioni di un navigatore o di un motore di ricerca.
Ci rendiamo conto, se solo riflettiamo un istante sulla faccenda, che ciò che chiamiamo «intelligenza» è essenzialmente la forma di vita umana. È nel quadro di questa forma di vita che possono prendere senso affermazioni come «Tizio è più intelligente di Caio»; o «Caio non è intelligente» (il che, si noti bene, non impedisce in alcun modo a Caio di vivere più che decentemente); o «Tizio è un genio», affermazione che non entra minimamente in conflitto con il riconoscimento del fatto che, pur essendo dotatissimo in qualche attività o ambito dello scibile, Tizio risulti inetto in qualche altro ambito (poniamo che non sia in grado di allacciarsi le scarpe, difetto che non comporta in alcun modo la decadenza dalla qualifica di «genio».)
Che cosa emerge da queste riflessioni che avevano semplicemente lo scopo di mostrare quante cose diverse, e spesso antitetiche, si nascondono sotto il nome di «intelligenza» (con cui indichiamo, in mancanza di altre specificazioni, l’intelligenza naturale)? Il fatto che, a maggior ragione, quando parliamo di «intelligenza artificiale» indichiamo un ambito vaghissimo. E non c’è da stupirsi se, di fronte a tanta vaghezza, possa sorgere il timore che attualmente circonda l’intelligenza artificiale. Più che di timore, sarebbe meglio parlare di «panico», perché è proprio l’atteggiamento che ci accompagna di fronte all’ignoto. Per fare un po’ di chiarezza in materia, converrebbe considerare che l’intelligenza artificiale non è in alcun modo una forma di vita, umana o non umana, e questo semplicemente perché le macchine non sono né vive né morte, diversamente dagli organismi. Per cui se è legittimo sostenere, con un poco di antropocentrismo – dal momento che proiettiamo su un’altra specie caratteristiche proprie della specie umana – che le volpi sono intelligenti (hanno una forma di vita in cui risultano bene adattate) è problematico sostenere, se non in una forma metaforica, che il nostro telefonino è intelligente, giacché non ha alcuna forma di vita ma piuttosto si applica a misurare, registrare e calcolare la nostra forma di vita.
Ora, non bisogna mai dimenticare che quello che definiamo «intelligenza» in una macchina è sempre e soltanto una metafora più o meno adatta, ma mai una definizione corretta. In retorica, si direbbe che «intelligenza», nell’espressione «intelligenza artificiale», è una catacresi, una espressione che si adopera in mancanza di meglio e sulla base di una vaga somiglianza, come quando si parla di «gamba di una sedia» o di «collo della bottiglia». Pensare che quando si parla di «intelligenza artificiale» si designa qualcosa di sostanzialmente identico, sia pure con qualche differenza minore, alla «intelligenza naturale» non è diverso dal pensare che la gamba di un tavolo sia pressappoco uguale alla gamba di un umano, commettendo così un errore grossolano.
Perché se è vero che la gamba di un umano è simile alla zampa di un gatto, non è vero che la gamba di un umano può essere sostituita in modo soddisfacente con la gamba di un tavolo. E quando parliamo della intelligenza artificiale e delle sue potenzialità pensandola come un analogo della intelligenza naturale commettiamo lo stesso errore di chi pensasse che la gamba di un tavolo è pressappoco la stessa cosa che la gamba di un umano. Con questo semplice accorgimento, ci renderemo conto che quando temiamo che l’intelligenza artificiale prenda il potere la umanizziamo al di là del lecito, perché le attribuiamo delle intenzioni che si trovano negli organismi e non nei meccanismi, e ci comportiamo come qualcuno che temesse seriamente che la gamba di un tavolo incominci a camminare da sola.
Ai tempi dei dibattiti novecenteschi sulla intelligenza artificiale (che era una cosa completamente diversa da ciò che chiamiamo con questo nome: era il tentativo di costruire delle macchine che fossero la replica dei nostri cervelli) si poteva forse confondere l’artificiale con il naturale. Ma oggi, nel momento in cui l’intelligenza artificiale è essenzialmente la raccolta e la gestione su base di calcoli probabilistici di una enorme quantità di dati di ogni sorta, davvero non c’è alcun motivo per ricadere nella confusione.
E si dovrebbe dunque vedere nell’intelligenza artificiale non la sorella meccanica di una facoltà che noi possediamo in forma organica, ma piuttosto una sconfinata biblioteca di Babele che può interagire con l’intelligenza naturale. L’interazione non sarebbe quella di un alter ego o di un rivale, bensì quella di uno strumento, molto complesso ma per essenza non diverso da un tagliaerba automatico, con cui interagiamo senza temere che possa mai prendere il potere, limitandosi a sostituirci nella funzione, dopotutto noiosa, del tagliare l’erba in giardino.

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