Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
La candidatura di Mario Draghi come risposta al fallimento della coalizione tra M5S, Pd e Iv e a una deriva elettorale ad alto rischio è l’antidoto più potente che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, potesse scegliere. E l’appello a «tutte le forze politiche» perché appoggino un suo governo «di alto profilo» esprime la gravità della situazione e la volontà di non assecondare manovre di piccolo cabotaggio che avrebbero conseguenze devastanti. Convocando per questa mattina l’ex presidente della Banca centrale europea il Quirinale spedisce un doppio segnale: alle cancellerie occidentali e all’opinione pubblica italiana. È il tentativo di reagire con una risposta al massimo livello alla seconda rottura di una maggioranza in meno di tre anni di legislatura partorita dalla vittoria populista del 2018. Ad affondare l’alleanza tra M5S, Pd e Iv è stato l’alleato minore, Matteo Renzi. È sua la responsabilità principale, al limite dell’irresponsabilità, di una crisi aperta in piena pandemia; e perseguita fino alla rottura dopo una trattativa lunga e confusa: anche se nel suo gioco spregiudicato l’ex premier non escludeva di provocare uno strappo così radicale da imporre scelte altrettanto estreme.
Ma non si possono ignorare le responsabilità di Giuseppe Conte, che ha tardato a capire le manovre partite con la fase della gestione dei fondi europei; e reagito con una maldestra prova di forza parlamentare. Il suo lungo esorcismo nei confronti di Draghi, alimentato dalla tribù grillina, non solo non ha funzionato ma alla fine ha prodotto l’effetto opposto. Anche perché il grumo di diffidenza, e soprattutto di interessi opposti tra alleati si è rivelato così vistoso da frustrare ogni tentativo di ricucitura della coalizione giallorossa.
Da ieri sera, quando il presidente della Camera, Roberto Fico, ha comunicato al capo dello Stato i risultati della sua «esplorazione», il governo Conte è, di fatto, archiviato. E l’epilogo giustifica la cautela iniziale di Mattarella, che aveva preferito non affidare nessun incarico prima di capire se il premier dimissionario avesse ancora una maggioranza. Le consultazioni del grillino Fico hanno potuto solo fotografare la frantumazione dell’alleanza uscente; e insieme la difficoltà di trovarne una alternativa. Il risultato è la presa d’atto che non esistono più gli equilibri esistenti; ma nemmeno altri che abbiano solide basi politiche. D’altronde, nella trattativa di questi tre giorni si è parlato di giustizia, di fisco, di ministeri, anche se tutti lo negano: è sui cosiddetti «posti» da concedere ai renziani, prima che sui mitici «contenuti», che si è consumato il fallimento del negoziato. Il Fondo per la ripresa, tema vero sul quale si giocheranno il futuro dell’Italia e i rapporti con l’Europa, è rimasto sullo sfondo, come se si trattasse di una questione laterale.
Hanno prevalso arroganze e impotenze reciproche, fino a portare il Paese in un vicolo cieco. La forzatura renziana significa un cambio di schema in corso dai contorni tutti da costruire, anche se è chiara la volontà di scegliere un premier e ministri dotati delle migliori competenze. È il male minore, rispetto a una prospettiva di elezioni anticipate che avrebbero il solo effetto di aggravare la situazione economica e sociale, e sfigurare l’immagine dell’Italia in Europa. Mattarella ieri sera ha insistito sul pericolo di lasciare il Paese in balia dell’incertezza e di un vuoto di governo «in mesi cruciali».
La suggestione dell’«esecutivo del presidente» è gonfia di speranze e insieme di insidie. Qualunque formula dovrà fare i conti con un Parlamento nel quale i rapporti di forza evidenziano maggioranze alternative nel segno di un populismo più accentuato; e pulsioni antieuropee che l’esecutivo caduto ha arginato e in parte sconfitto. Ma la sensazione è che stia già scompaginando non solo gli equilibri della maggioranza ma della stessa opposizione. Il nome di Draghi è destinato a riplasmare le alleanze e a mettere tutti davanti alle proprie responsabilità. Rimane da chiedersi che cosa potrà fare anche il premier più credibile e sperimentato, contro l’assedio di istinti elettorali inevitabili. Dovrà affrontare partiti ossessionati dal voto politico, al massimo nel 2023; e tentati di reagire a decisioni dolorose quanto necessarie con uno smarcamento dal governo. Il pericolo di una coalizione bombardata dal Parlamento nello spazio di pochi mesi aprirebbe una crisi non più politica ma di sistema. C’è da sperare che questo pericolo ormai palpabile induca a un sussulto unitario di responsabilità.