Fonte: La Repubblica
di Mario Calabresi
Nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma
Nella memoria di molti italiani, della maggior parte di noi, sono fissati indelebilmente il momento in cui abbiamo saputo che Giovanni Falcone era stato ucciso a Capaci e il dolore e la rabbia per la strage che poche settimane dopo ci tolse anche Paolo Borsellino. Più lontano nella memoria, lo sgomento per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, indifesi nella piccola Autobianchi A112. Tre momenti in cui lo Stato apparve perduto, incapace di fermare un’organizzazione criminale che sembrava invincibile.
Ora, nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma. I magistrati, i poliziotti, i carabinieri che si sono battuti per fermare il contagio, che hanno vinto la battaglia contro i corleonesi e hanno permesso alla Sicilia e all’Italia di tornare a vivere. Insieme a loro ci sono le vittime innocenti e la società civile, che da Palermo a Milano fu capace di mobilitarsi, di non girare più la testa dall’altra parte e di dire ad alta voce che la mafia era un’emergenza nazionale.
Penso a quegli uomini miti e silenziosi come Antonino Caponnetto, che prese il posto di Rocco Chinnici — l’ideatore del pool antimafia ucciso da un’autobomba nel 1983 — e trasferì nella lotta alla mafia le strategie utilizzate per sconfiggere il terrorismo, chiamando con sé Falcone e Borsellino. Viveva in modo monacale tra il palazzo di giustizia e la caserma della guardia di finanza che era la sua casa, i libri come unica compagnia. Una dedizione assoluta che proseguì nell’instancabile viaggio — lasciata la toga — nelle scuole italiane, per raccontare con il suo accento toscano la lotta alla mafia e per educare alla legalità.
Questa è l’Italia a cui dobbiamo guardare nel tempo in cui la ’ndrangheta la fa da padrone, in cui dilaga la corruzione e le piccole mafie proliferano a Ostia come a Modena, ricordando i molti che mai si arresero e mai si adeguarono.
L’elenco dei vivi è impossibile, quello delle vittime anche, ma ricordare alcuni nomi per tutti è doveroso. Dal dimenticato magistrato Alberto Giacomelli, assassinato — quando era già in pensione — per aver firmato anni prima il sequestro di una villetta del fratello di Riina, ai colleghi Cesare Terranova, Giangiacomo Ciccio Montalto e Antonino Scopelliti. Commissari come Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che venne colpito mentre guardava i fuochi d’artificio insieme alla figlia di 4 anni, o il professor Paolo Giaccone, medico legale ucciso per non aver accettato di cambiare la sua perizia su un’impronta digitale che incastrava un killer mafioso.
Ci sono poi gli uomini e le donne delle scorte, da Vito Schifani a Emanuela Loi e le vittime civili delle stragi e degli attentati. Penso a Barbara Rizzo, aveva 30 anni e stava portando alla prima elementare i gemelli Salvatore e Giuseppe Asta. Vennero uccisi dalla micidiale esplosione di un’autobomba progettata per eliminare il giudice Carlo Palermo e le sue inchieste sulle raffinerie di droga.
L’Italia non è guarita e la criminalità organizzata non è stata estirpata ma la Piovra, quella che organizzava le stragi, i massacri e strangolava una città, un’isola e un Paese quella è stata sconfitta. E dobbiamo a questi uomini se Salvatore Riina è morto, il giorno dopo il suo ottantasettesimo compleanno, sconfitto e isolato in un supercarcere e non nella sua Corleone.