22 Novembre 2024

CULTURA

Fonte: La Repubblica

Cultura mostra

Il nostro patrimonio monumentale, tutelato dalla Costituzione, dovrebbe essere volano per lo sviluppo economico e culturale del Paese. Troppo spesso invece si promuovono mostre ed eventi inutilmente sensazionali e costosi. Così buona parte degli incassi per l’ingresso nei musei e siti archeologici finisce nelle tasche di società che da anni gestiscono biglietterie online e servizi aggiuntivi. Un oligopolio sancito da vecchi bandi scaduti da tempo e mai rinnovati. Come al Colosseo, dove secondo la denuncia della Corte dei Conti, lo Stato incassa solo il 30% dei 12 euro del biglietto. Replicano i concessionari: “Guadagni irrisori e nessuna possibilità decisionale”

Il grande business del “petrolio” nazionale

di Arianna di Cori e Alice Gussoni
ROMA – Lo chiamano il “petrolio d’Italia”, le decine e decine di milioni di euro che i visitatori dei tesori artistici italiani, musei, pinacoteche, siti archelogici, pagano per i biglietti. Ma come accade per il petrolio, quello vero, anche qui a godere i frutti di questa ricchezza non è chi la possiede, lo Stato, ma chi ne ha avuto dei pezzi in concessione. Società, associazioni, apparentemente slegate fra loro, ma unite da scambi azionari e di amministratori. Su questa gestione la Corte dei Conti i suoi dubbi li ha già espressi, più volte, chiedendo lumi su contratti e appalti. Pochi, sempre gli stessi, si sono accaparrati la gestione delle biglietterie, dei book shop, delle caffetterie, dei cataloghi. E se la tengono ancora stretta, nonostante i contratti siano scaduti da tempo.
Dal Colosseo agli Uffizi, ovunque girino centinaia di migliaia di visitatori all’anno, si prendono una grande fetta degli incassi. Mani private sul tesoro culturale italiano. Ma non è tutto. C’è chi sospetta che dietro alcune norme della riforma Franceschini si nasconda la possibilità per queste imprese di entrare nei Consigli di Amministrazione dei musei maggiori in pianta stabile, di gestirne le scelte. Una privatizzazione vera e propria che potrebbe trovare applicazione a partire dal rinnovo delle concessioni che, assicurano al ministero dei Beni artistici e culturali, verranno messe presto a gara.
“Exit through the gift shop”. Il passaggio obbligatorio all’uscita di ogni museo tra bar librerie e negozi di souvenir è diventato l’ago della bilancia per la riuscita di una riforma, quella del ministro Franceschini, che promette di modificare una volta per tutte e per sempre il rapporto tra pubblico e privato. Una fetta importante dei guadagni passa di lì infatti, ma dal 1993 (quando la legge Ronchey aprì la porta ai privati) è stata spartita tra pochi eletti. Loro, i “privati del patrimonio”, sono Civita Cultura, Electa, CoopCulture. Società che in questi anni si sono sostituite allo Stato nella gestione di biglietterie, servizi di prenotazione,  ristoranti, audioguide, cataloghi, sicurezza e personale, con percentuali sugli incassi estremamente vantaggiose: oltre l’85% sui servizi aggiuntivi, il 30% sulla biglietteria, il 100% sulla prevendita.
La difesa dei concessionari. “In questo mercato non ci sono i guadagni sfrenati come si crede”, dice Albino Ruberti, nel doppio ruolo di amministratore delegato di Civita Cultura e di Zètema, società del Comune di Roma nominalmente concorrente di Civita Cultura. “I ricavi sono molti bassi e il modello in essere non offre possibilità di fare investimenti. Siamo solo dei concessionari che guadagnano sui biglietti e i servizi aggiuntivi, ma non possiamo decidere né il prezzo né una strategia di marketing”. Solo Civita Cultura, presente in 82 musei fra i quali spiccano gli Uffizi di Firenze, lo scorso anno ha fatturato circa 70 milioni di euro, ma il suo amministratore delegato insiste: “Quello attuale è un modello ibrido e noi non siamo stati dei partner, ma piuttosto quasi dei mecenati. A ogni investimento deve corrispondere un ritorno. Lo Stato deve mantenere il ruolo di proprietario e indirizzo e quindi di valorizzazione del patrimonio, chiedendo di più a noi in materia di investimento e know-how, ma dandoci anche un ruolo più attivo nelle scelte di marketing, di comunicazione, per darci la possibilità di un ritorno economico soddisfacente”. Dieci milioni, invece, il fatturato 2015 delle librerie museali (non solo quelle in concessione) di un altro colosso del settore, Electa. Come risponderebbe Rosanna Cappelli, direttore Electa Arte Mostre e Musei, al ministro Franceschini per il quale “non è ammissibile che lo Stato non guadagni sui servizi aggiuntivi”? “Credo che il ministro abbia innanzitutto a cuore lo sviluppo dei musei, cui concorre anche la crescita, numerica e qualitativa, dei servizi al pubblico. Un obiettivo cui tende anche Electa e per il quale occorrono progetti, investimenti e regole certe. Speriamo che ciò si realizzi presto”. Ma è anche vero che Electa, come Civita, è spesso accusata di operare in regime di oligopolio. “Sarebbe auspicabile che la critica non rinunciasse all’analisi temporale, storica, degli avvenimenti in questo settore – dice Rosanna Cappelli – settore che, ai suoi inizi, ha visto la partecipazione di pochissimi soggetti, anche dimensionalmente diversi fra loro: Electa, per storia e prestigio del marchio, era ed è una casa editrice di grande successo. Il regime di proroga attuale, specie nelle grandi città d’arte (Firenze e Roma), ha alimentato questa visione oligopolica”.
420 pozzi di petrolio. Definiti come detto il petrolio d’Italia, i 420 istituti dello Stato hanno registrato un incasso totale di biglietteria che si aggira sui 111 milioni solo nel 2014. Cifra al netto dell’aggio concesso ai privati. Nulla se confrontati ai 216 milioni raggiunti dal Louvre lo stesso anno. 111 milioni sono poco più del doppio dei 49 milioni arrivati, sempre nel 2014, dai  servizi aggiuntivi (audioguide, bookshop, gadget, caffetterie, prenotazioni e prevendite, ristoranti e visite guidate). Solo 7 milioni sono finiti nelle casse statali. Un potenziale da sfruttare meglio. Indicativo il dato  fornito da un’indagine della Bocconi secondo cui tra i visitatori dei musei e clienti dei servizi esiste un divario netto: sono il 7% in Italia, il 16% al Louvre, 31% al British e 33% alla London National Gallery, un divario imputabile forse alla carenza dell’offerta di servizi educativi e di accoglienza, che secondo il Touring Club non rispondono più alle esigenze del pubblico.
La svolta imminente. “A primavera la svolta”, ripete come un mantra il ministro Franceschini alludendo ai nuovi bandi di concorso per i servizi aggiuntivi che presto usciranno. Già nel 2013 la Corte dei Conti aveva fatto esplicita richiesta di istituire nuove gare con criteri trasparenti, dopo i 6 anni di tentativi falliti delle precedenti amministrazioni, capitolate sotto una raffica di ricorsi al Tar impugnati dai “soliti” concessionari che vedevano minacciati i loro oligopoli. “Oligopolio? Piuttosto ci si chieda perché siamo così pochi, eppure non mancherebbero gli imprenditori disposti a investire” dice ancora Ruberti che insiste sulla necessità di cambiare le regole del gioco: “Noi non abbiamo partecipato ai ricorsi ma il modello economico delle gare uscite nel 2010 non era sostenibile. Finora si è continuato a pagare con una percentuale sugli incassi. Così non si vedrà mai una proattività da parte dei privati. Questo è uno degli equivoci di fondo. Ci sono dei modelli che prevedono una maggiore compartecipazione e in futuro si dovrà prevedere ruolo più pregnante per i privati”.
Intanto a luglio 2015 sono usciti i nuovi bandi per i servizi gestionali sul sito della Consip (manutenzione, pulizia, ma anche sistema informativo, i call center etc.) per un  valore complessivo di 640 milioni di euro. A scegliere questa volta saranno direttamente i direttori dei musei tra i fornitori selezionati da Consip con “notevoli risparmi non solo in termini di prezzi d’acquisto –  come si legge sul sito dell’agenzia del Mef – ma anche di tempo e di processo”. Intanto però non si conoscono i vincitori e il resto dei bandi è ancora in attesa di essere pubblicato.
I biglietti online. La bigliettazione unica online dovrebbe essere il prossimo passo, presto anch’essa in gara sul sito della Consip. Questa volta però dal Mibact assicurano che gli introiti confluiranno interamente nelle loro casse. Un’idea talmente semplice che viene da chiedersi come mai non sia stata introdotta prima. Oggi infatti la biglietteria è affidata a concessionari privati che per legge non possono trattenere oltre il 30% del costo del biglietto, ma possono incassare integralmente i diritti di prevendita che, per esempio, per gli Uffizi di Firenze arrivano fino a 4 euro. Un servizio finora gestito da Civita Cultura che ha ereditato un contratto di appalto, ormai scaduto, risalente agli anni ’90 e siglato con Firenze Musei. Considerando che, su una media di 5000 presenze giornaliere, 3500 sono le prenotazioni, c’è un potenziale fatturato di 14mila euro ogni 24 ore. Inoltre, nemmeno la soglia del 30% spesso viene rispettata. Al Colosseo, infatti, come denuncia la Corte dei Conti, sui 12 euro a biglietto, alla soprintendenza anziché il 70%, arriva solo il 30%. Il restante va ad Electa in base ad accordi su cui non si riesce a fare chiarezza e che risalgono, sempre tra proroghe e ricorsi, al 1997, la bellezza di quasi 20 anni fa. Basterà un sito web a risolvere i problemi? I dubbi non mancano.Se per le prenotazioni ci sarà il sito, le società private resteranno in loco a gestire le biglietterie anche se, come promettono dal ministero, i loro margini di guadagno saranno leggermente ritoccati.
Largo ai mecenati. Per risollevare le sorti di un ministero il cui budget quest’anno è di 1 miliardo e 365mila euro, in linea con il trend negativo che negli ultimi dieci anni ha visto scendere del 27% il suo valore, è stato introdotto l’ArtBonus. A metà tra quella che sembra essere una campagna di solidarietà sociale e un incitamento che ricorda “l’oro alla patria” prebellico, il sito istituzionale dell’ArtBonus si presenta così: “Chiamata alle Arti. Mecenati di oggi per l’Italia di domani”. Dal suo lancio, nell’estate 2014 ha attirato 790 “mecenati”, raccogliendo 34 milioni di euro per finanziare 272 interventi sul patrimonio artistico e monumentale del Paese. Un sistema che prevede un credito d’imposta al 65% (anche se già dal corrente anno è stato abbassato al 50%), ammortizzabile in 3 anni, aperto a fondazioni bancarie, aziende, e privati cittadini. I maggiori donatori sono stati finora Unicredit e Fondazione Cariverona che hanno devoluto 7 milioni a testa all’Arena di Verona. A ben guardare, però, ci si accorge che la seconda fa parte anche della Fondazione Arena di Verona, che gestisce in modo diretto il monumento, nel quale organizza uno dei festival di lirica più importanti d’Italia.
Anche secondo Mario Curìa, patron di un altro storico editore del settore, Mandragora, la chiave è in una diversa apertura al privato. “Lo Stato dovrebbe avere un perimetro molto più ristretto di quello che ha oggi e dovrebbe essere più forte. Noi invece abbiamo uno Stato che praticamente controlla tutto, però è debole, quindi alla fine non controlla niente. Ma per farlo, per aprire un mercato che nonostante le buone premesse delle legge Ronchey, è rimasto chiuso, ci vogliono le giuste competenze, culturali, manageriali e di sensibilità. Non solo leggi”.
Del resto il costo di gestione del nostro patrimonio culturale si aggira intorno ai 9 miliardi di euro, pari allo 0,4% del Prodotto interno lordo, pagati all’80% con soldi pubblici, meno dell’1% della spese totali della Pubblica amministrazione. A fronte di ciò l’investimento pubblico per offerte culturali è di 25,4 euro per abitante, la metà di quello che impegna la Grecia per ogni singolo cittadino (dati Federcultura 2014). Ma allora a chi interessa far fruttare il “nostro petrolio”? Tanti ne parlano, la riforma Franceschini ci prova. Intanto, possiamo solo tentare di uscire dal museo con un souvenir in più e la speranza di una migliore gestione del nostro patrimonio.

Una gestione contestata dalla Corte dei Conti

di Daniele Autieri
ROMA – Da Pompei agli Uffizi, dal Colosseo alla Galleria Borghese, la gestione del patrimonio artistico e culturale italiano si concentra in poche mani. Civita Cultura (nata dalla Associazione Civita di cui è presidente Gianni Letta); Electa del gruppo Mondadori; Coop Culture (vicina al mondo delle cooperative); Zetema (controllata al 100% dal Comune di Roma e divenuta ormai organizzatore di tutti i più grandi eventi culturali della Capitale); Ales (società strumentale al 100% del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali). Sono loro i grandi operatori del settore, i privati che, da almeno dieci anni, hanno catalizzato le concessioni per la gestione dei “pezzi” più pregiati del patrimonio artistico del nostro Paese.
Concessioni che sono state più volte contestate dalla Corte dei Conti, all’interno di una serie di documenti, relazioni e deliberazioni che oggi Repubblica è in grado di riportare.
Anno 2014: la Corte si interroga su due provvedimenti del ministero dei Beni Culturali: il primo riguarda l’indicazione del biglietto di ingresso alla “Galleria d’arte moderna” di Roma; il secondo è il pagamento per alcune mostre allestite all’interno di “Villa Adriana” di Tivoli. Nell’ambito di queste due attività, i magistrati contabili sottolineano: “Appaiono non rispettati i tetti percentuali di ripartizione tra amministrazione e società concessionarie dei servizi di biglietteria delle entrate rivenienti dalla vendita dei biglietti”.
Non solo, aggiunge la Corte: “Il contratto in essere con le imprese affidatarie dei servizi aggiuntivi risulta ampiamente scaduto (dal 2007) e sostituito da un mero rapporto di fatto”. Stesso anno, contesto differente: la Corte si concentra sulla mostra “I Papi della speranza” organizzata in alcune sale del Museo di Castel Sant’Angelo, a Roma. Stavolta la convenzione viene firmata dalla soprintendenza del polo museale di Roma e dalla società Cet (Centro europeo per il turismo) che subaffida a un’altra società, la Gebart srl, la gestione della biglietteria. Nella prima convenzione la Corte rileva una serie di vizi di legittimità. “Dalla lettura della clausola del contratto  –  viene spiegato nella deliberazione 122 del 2014  –  emerge una minore entrata a favore dell’amministrazione in presenza della mostra rispetto all’ipotesi di assenza della mostra stessa”. In sostanza, la soprintendenza invece di guadagnare, perde.
Un anno prima, nel 2013, la Sezione Regionale di controllo del Lazio della Corte (presieduta dal giudice Rosario Scalia) è chiamata a pronunciarsi sull’accordo siglato dalla soprintendenza dei Beni Archeologici di Roma con i gestori privati per l’aumento del biglietto di accesso a Colosseo, Palatino e Foro Romano. Dai documenti emerge che la ripartizione degli introiti è nettamente sbilanciata a favore del gestore privato nella misura del 70% per il privato contro il 30% riservato al pubblico. Nella deliberazione 278 del 2013 la Corte non solo contesta il metodo scelto per la divisione degli incassi, ma  –  riferendosi alla concessione affidata ormai da anni alla Electa Mondadori  –  rincara: “Infine, dalla documentazione trasmessa si evince che alla data del 2001 la Mondadori Electa godeva già di un rinnovo di quattro anni della concessione “per i servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico” sui beni culturali dell’Area archeologica centrale di Roma, di cui attualmente continua ad occuparsi (pertanto dal 1997, fino ad oggi, per una durata di almeno 16 anni continuativi), grazie ad una  serie continua di  rinnovi e proroghe, in evidente violazione, almeno per quanto acquisito in atti e comunicato dall’Amministrazione dei principi comunitari in materia di libera concorrenza, nel settore”.
Ma non sono solo i privati a finire al centro delle contestazioni degli organi di controllo. Nell’agosto del 2015 l’Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone invia al Comune di Roma una relazione nella quale, tra le altre contestazioni, accusa Zetema di aver affidato una serie di appalti per la realizzazione di mostre ed eventi senza gara. La società si difende sottolineando il rispetto delle normative, ma l’Anac arriva a contestare casi specifici e afferma: “In taluni casi Zetema avrebbe potuto effettuare procedure di evidenza pubblica al fine di acquisire proposte nel rispetto dei principi richiamati in precedenza, ivi compreso quello di rotazione che non pare rispettato almeno nel caso dei 13 affidamenti diretti assegnati alla Cooperativa Culture tra il 2013 e il 2014”.
Coop Culture, che insieme alla Electa gestisce il Colosseo, è presente con la sua attività in 13 regioni italiane (dalla Reggia di Venaria ai Musei civici di Torino) e ha chiuso il 2014 con ricavi per 43 milioni di euro, oltre la metà dei quali (25 milioni) sono stati spesi per il personale. Come dimostrano questo ed altri casi, la fetta di ricavi provenienti dalla gestione dei beni pubblici che finisce nelle tasche di queste aziende è sostanziosa. Civita Cultura ha chiuso il 2014 con 9,6 milioni di euro di ricavi, gestendo da sola 13 musei in Campania, 14 nel Lazio, 32 in Toscana, 11 in Veneto, 3 in Lombardia, 2 nelle Marche, 2 in Sicilia, 4 in Umbria, 1 in Piemonte. Il suo presidente è Luigi Abete, mentre la carica di amministratore delegato è ricoperta da Albino Ruberti (il manager che occupa la stessa carica in Zetema). Ma il vero pilastro finanziario di Civita Cultura è Opera Laboratori Fiorentini, controllata dalla società romana con una quota dell’80% e guidata ancora una volta da Albino Ruberti, che siede anche qui sulla poltrona di amministratore delegato. Opera Laboratori Fiorentini gestisce di fatto il Polo Museale di Firenze e ha chiuso il 2014 con ricavi per 53 milioni di euro.
Firenze e i suoi musei fanno gola da tempo. Electa, nel 1996, dunque prima di essere acquisita dal gruppo Mondadori, acquisizione avvenuta nel 2002, aveva partecipato ai primi bandi per la costruzione di bookshop negli Uffizi insieme ad un altro storico editore d’arte Mandragora (che oggi lavora maggiormente con musei esteri, tra cui spicca il Louvre, ma molto poco in Italia, per un fatturato di 3 milioni circa). “Ai tempi Electa era l’editore d’arte top sul mercato – ricorda il patron di Mandragora, Mario Curìa – noi eravamo più piccoli ma rinomati per la qualità della nostra offerta. Insieme, proponemmo un progetto molto valido, che prevedeva spazi progettati dall’architetto Adolfo Natalini, era un layout che poteva essere adattato a tutti i musei”. Ma il progetto venne bocciato, perché “l’offerta di allestimento e quella editoriale non rispondevano ai requisiti qualitativi richiesti”.
Vinse Opera Laboratori Fiorentini, società che faceva parte del gruppo Giunti (una grande casa editrice, ma meno specializzata nel settore dell’arte). Nel 2009 Opera è stata acquisita da Civita Servizi che è diventato il nuovo concessionario per il lucroso polo museale. Giunti rimane nella catena di comando con  Martino Montanarini, attualmente consigliere di amministrazione dell’Associazione Civita e di Civita Cultura Srl e Amministratore delegato di Giunti Editore. Lo stesso Montanarini, nel 1998, anno in cui Opera Laboratori Fiorentini iniziò la gestione degli Uffizi, era stato nominato amministratore delegato di Firenze Musei (ossia la società che gestiva tutti i musei statali fiorentini e che raggruppava tutti i concessionari).
Oggi l’80% dgli utili di Opera Laboratori fiorentini finiscono nelle tasche del maggiore azionista: Civita Cultura, nata da una costola della storica Associazione Civita, presieduta da Gianni Letta, che ne detiene ormai solo lo 0,59%. La maggioranza relativa delle quote (il 50% perché il resto è diviso in quote minoritarie) è nelle mani della Filmaster, società specializzata nel settore degli spettacoli e del cinema con un azionariato diffuso e diviso tra (35,68%) Cinecittà Entertainment (controllata da alcune aziende che fanno riferimento a Luigi Abete), Fondo Italiano d’Investimento (15,3%), e il socio privato Marco Balich (5,5%). Balich è un noto produttore e creativo, ha ricoperto ruoli importanti nell’organizzazione delle grandi kermesse, tra cui l’Expo Milano 2015 dove ha sviluppato il concept dell’Albero della Vita, ed è conosciuto nel mondo dei vip per aver organizzato feste ed eventi da favola, come il matrimonio di un rampollo di una ricchissima famiglia indiana, allestito in una masseria pugliese alla presenza  –  tra gli altri  –  di alcuni esemplari di elefanti.

Il Rinascimento toscano un affare per pochi

di Gerardo Adinolfi e Laura Montanari
FIRENZE – “Con 48 euro a testa trovate il modo di resuscitare Vasari che ci fa personalmente da guida?”, scrive con velenosa ironia Daniele. Mentre Elena protesta sulla stessa pagina Facebook: “48 euro per un’ora di visita al Vasariano? È una follia!”. Chi ha detto che con la cultura non si mangia non conosceva il business che ruota attorno al Rinascimento in Toscana tra biglietti salta-fila per gli Uffizi con il prezzo maggiorato, visite guidate al celebre Corridoio Vasariano che arrivano fino a 120 euro o la girandola delle offerte scontate su Groupon e altri siti. In mezzo l’attesa, dal 2008, di un bando per il rinnovo della concessione dei musei statali per biglietteria, cataloghi e servizi aggiuntivi comprese le audiogiude. Perché oggi funziona così per i musei dell’ex Polo fiorentino: l’86% degli introiti dei biglietti vanno allo Stato, il 14% a chi ha la concessione. Per avere un’idea del volume di affari che ruota attorno al numero uno dei musei italiani, gli Uffizi, basta leggere gli ultimi dati disponibili, quelli del 2014: i visitatori paganti sono stati 1.503.101, i non paganti 432.817 per un totale di introiti lordi (compresa la quota del concessionario) di 9milioni 614mila euro e un netto di 8milioni 268mila 64.
Evitare la fila costa. I “salta-fila” sono le agenzie private e i tour operator che si prendono cura dei turisti sfiniti nella coda, in piedi ad aspettare ore per entrare agli Uffizi o alla Galleria dell’Accademia per il David. Il messaggio è semplice: frugandosi le tasche e sborsando anche 28 o 31 euro ecco che c’è l’accesso diretto. Siamo al paradosso che il “parcheggio” dei visitatori  davanti alla Galleria viene usato come spot in rete per convincere i turisti a sborsare di più: “Le code fuori dalla Galleria degli Uffizi di Firenze sono lunghe e le attese possono talvolta superare due ore. – si legge su uno dei tanti siti web che rivendono i biglietti – Fortunatamente, con biglietti salta-fila non bisogna aspettare in coda ma ci si può dirigere dritti all’interno e iniziare a visitare l’incredibile Galleria a proprio piacimento”. Una specie di “bagarinaggio” online e offline, senza però nessun risvolto di illegalità (la procura ha aperto un’inchiesta qualche anno fa chiudendola con un nulla di fatto pochi mesi dopo).
Un fenomeno che però il nuovo manager degli Uffizi Eike Schmidt ha intenzione di combattere alla base. “L’obiettivo è ridurre le code a 15-20 minuti al massimo – ha annunciato a Repubblica subito dopo il suo insediamento alla guida della Galleria – e in questo modo combattere i bagarini che, come nel mito di Ercole e Anteo che si nutre dal contatto Gaia, traggono linfa vitale proprio da esse: tentare di sopprimere i salta-fila senza combatterne la causa sarebbe inutile”.
Il Corridoio Vasariano. Altra spina nella geografia turistica fiorentina è il Corridoio Vasariano, il percorso sopraelevato costruito dall’architetto Giorgio Vasari, che collega Palazzo Vecchio con Palazzo Pitti, passando sopra gli Uffizi e Ponte Vecchio e che contiene la più grande collezione al mondo di autoritratti: per motivi di sicurezza può essere aperto solo a gruppi di 25-30 persone, e solo con una visita guidata. Ma se non ci si appoggia a un tour operator vederlo, di fatto, è impossibile. “Non esiste – denuncia la sindacalista Cgil Giulietta Oberosler – un biglietto staccato dal ministero dei Beni culturali in cui c’è scritto che si può visitare il Corridoio Vasariano”. Tutto, quindi, è affidato ai privati che devono stipulare di volta in volta una concessione con il Museo autonomo delle Gallerie degli Uffizi (l’ex Polo Museale Fiorentino) per poi rivendere gli ingressi, magari offrendo servizi aggiuntivi. “C’è chi aggiunge nel prezzo – dice la sindacalista –  altre visite guidate in altri musei, chi una cena, chi un banchetto di prodotti gastronomici o una bottiglia di vino”. Con i prezzi, che, ovviamente, lievitano. Il prezzo della concessione che un tour operator deve pagare allo Stato è di 275 euro per 25 persone, più 25 euro di rimborso spese. Un totale di 300 euro che, diviso per il numero massimo di visitatori, farebbe pagare ai turisti 12 euro a testa. Basta cercare su Google  “Corridoio Vasariano visita” però per avere un’idea sui prezzi. Su Florence Museum, ad esempio, per entrare nel Vasariano bisogna sborsare 75 euro, che diventano 85 se si compra il biglietto anche degli Uffizi. Così anche su Uffizi.com, che non è il sito ufficiale della Galleria, ma pure compare sempre tra i primi risultati di Google. Il tour guidato qui ha la durata di 3 ore, e guida professionale solo in lingua inglese. Si arriva fino a tour operator che propongono biglietti a 120 euro. “Da anni combattiamo per evitare che il totale delle visite al Corridoio sia occupato da soggetti esterni –dice la ancora Giulietta Oberosler – il nuovo direttore Schmidt sembra propenso a offrire la possibilità di visite fatte direttamente dal personale del ministero durante l’orario di lavoro”.
Due anni da superstar. Il 2015, così come il 2014 sono stati anni superstar per i musei toscani e di conseguenza anche per la società privata Firenze musei che ha in concessione biglietteria e bookshop e che vede fra i suoi soci Giunti, Ferragamo, Bassilichi, Opera e Sillaba editore almeno fino alle prossime gare di appalto annunciate dal ministro Franceschini. Attualmente per ogni biglietto venduto una quota va allo Stato, un’altra al concessionario. E’ così dal 1998. Gli Uffizi nell’ultimo anno sono arrivati a sfiorare i due milioni di visitatori con un incremento del 2 per cento rispetto all’anno precedente. Se non ci sono mostre collegate l’ingresso lì costa 8 euro: di questi il concessionario, come detto, prende il 14%, il resto va allo Stato. Ma siccome le file sono spesso epocali, soprattutto nei mesi di alta stagione esiste per i turisti la possibilità di prenotare con un costo aggiuntivo di 4 euro (si sale così a 12 per l’ingresso). Ebbene “quei 4 euro finiscono tutte nelle casse dei privati” spiegano dagli Uffizi. “Per le prenotazioni – precisa il direttore della Galleria – il capitolo è a parte: il concessionario versa un canone fisso allo Stato di 420mila euro aunuo a cui va aggiunto il contributo per le prolungate aperture di vari musei e/o per l’integrazione del personale per tutti i musei afferenti all’ex Polo museale fiorentino”. Inoltre va precisato che le royalties dovute dal concessionario allo Stato per la bigliettazione vengono versate in anticipo semestrale “salvo conguaglio a consuntivo”. Per gli introiti dei bookshop invece la percentuale allo Stato scende al 23%, stessa cosa per audioguide e visite guidate. Per la caffetteria di Palazzo Pitti allo Stato va il 16% per quella degli Uffizi il 15%. Un altro dato che può essere utile alla riflessione: il numero dei visitatori degli Uffizi è andato crescendo in questi anni e ciò malgrado i cantieri aperti, le sale in fase di rinnovo: un merito che va a chi ha diretto la Galleria (Antonio Natali e il suo staff) e anche a chi ha organizzato i servizi di bigliettazione.
Il patto coi privati. C’è stato un tempo, prima del 1998 in cui la biglietteria era statale: “Ora io mi chiedo: se le biglietterie erano vantaggiose, perché non ha continuato a tenerle lo Stato? Se non erano vantaggiose mi riesce difficile immaginare un privato interessato alla gestione” dice Franca Falletti ex direttrice della Galleria dell’Accademia. “Mi sembra che la politica stia forzando sempre di più in direzione dei privati – riprende Falletti – tuttavia va detto che quando io organizzavo mostre, poi chiamavo i concessionari  e dicevo loro: bene, avete guadagnato parecchio, adesso dovete reinvestire una parte qui all’Accademia. E l’hanno sempre fatto. Tant’è che tutto l’allestimento del primo piano è stato possibile grazie proprio al concessionario e spesso erano investimenti importanti da 2-300 mila euro”.
Il bando. Il momento però è delicato: le concessioni sono scadute e sono state rinnovate già due volte, l’ultima appunto nel 2008. Si aspetta il nuovo bando e intanto i sindacati si muovono perché temono, nel caso non fosse Firenze musei a vincere la gara si chiedono che fine faranno gli oltre trecento lavoratori impegnati in tutti questi anni. Nel 2014 proprio la Cgil e lo ricorda lo storico dell’arte Tomaso Montanari nel libro “Privati del patrimonio” (Einaudi) , aveva chiesto che i servizi appaltati all’esterno tornassero allo Stato: “Rendiamo di nuovo esclusivamente pubblica la gestione di questo bene pubblico che produce ricchezza”. Un grido che per ora rimbalza nel vuoto.

Dal Colosseo allo Stato sole le briciole

di Alberto Custodero
ROMA – La famiglia Berlusconi, insieme alla Lega Coop (l’ex costola della sinistra che ai tempi del Pci faceva parte delle “organizzazioni di massa”) si spartiscono, a Roma, il business del Colosseo. Con il beneplacito del ministero dei Beni Culturali che ha consentito che un appalto prorogato più volte e definitivamente scaduto nel 2010 fosse poi prorogato di fatto senza alcun atto formale per più di 5 anni. La vicenda nasce con il governo Berlusconi, transita attraverso il governo tecnico di Monti, viene ereditata dal governo del presidente di Letta per approdare infine a quello delle larghe intese di Renzi.
In barba alla legge. Escamotage burocratico e proroga infinita. Ecco come Berlusconi e CoopCulture (Lega Coop) gestiscono il milionario affaire della vendita dei biglietti e dei servizi aggiuntivi dell’area archeologia Colosseo-Fori Imperiali-Palatino nonostante l’appalto sia scaduto da più di cinque anni. Dopo un bando tentato e poi ritirato nel 2010, il ministero da allora attua una proroga di fatto della gestione dell’area archeologica di anno in anno grazie a una circolare che avrebbe dovuto essere provvisoria e valere il tempo necessario per consentire al ministero di indire un nuovo bando su base europea. Invece, il provvisorio si è trasformato in definitivo. E così, per la prima volta in Italia, una circolare è diventata lo strumento per rinnovare un appalto pubblico, aggirare le norme della libera concorrenza e garantire il monopolio al raggruppamento temporaneo d’imprese capitanato da Mondadori Electa eludendo le norme sugli appalti pubblici. Questa anomalia, già contestata dalla Corte dei conti del Lazio nel 2014, ha suscitato una protesta bipartisan alla Camera, con Scelta civica (parte della maggioranza) e Fratelli d’Italia (all’opposizione) che tempestano di interrogazioni parlamentari il ministro Dario Franceschini.
I dubbi sulla vendita dei biglietti. Il deputato di Scelta civica Andrea Mazziotti, presidente della commissione Affari Costituzionali, ha fatto della legalità della gestione dei monumenti di Roma una crociata politica personale. Mazziotti ha preso i conti pubblicati sul sito del ministero dei Beni Culturali. Li ha elaborati. E ha scoperto, ad esempio, che nel 2014 i visitatori al Colosseo sono stati 6 milioni e 181mila, a fronte di un introito lordo totale di 41 milioni e 440mila euro. Prezzo medio del biglietto, 6 euro e 70 a visitatore, molto meno del prezzo pieno che ha una base fissa di 9 euro, ma viene venduto ormai sempre a 12 a causa di un sovrapprezzo dovuto alle mostre allestite all’interno.
Stesso discorso per il 2015, anno in cui è stato registrato un incremento significativo di visitatori, saliti a 6milioni e 551mila. Gli introiti lordi sono stati 44 milioni e 613mila, allo Stato sono andati 38milioni e 367mila. Il costo medio del biglietto è stato di 6,81 euro per ogni visitatore. Ma il costo medio del biglietto è inferiore anche al prezzo del cosiddetto “ridotto”, che è di 7,50 euro. Questo è dovuto al fatto che quasi il 25 per cento dei visitatori del Colosseo non paga.
La parte che va allo Stato dalla vendita dei biglietti, l’86%, ammonta a 35,6 milioni. “Ma è troppo poco”, commenta Mazziotti. “Nel confronto con altri siti archeologici del mondo – spiega il deputato di Scelta civica – il prezzo del biglietto del Colosseo è troppo basso. Perché?”. Quanto il Colosseo costa il Partenone di Atene. Ma l’ingresso alla Sagrada Familia di Barcellona è già più caro, va da 15 a 20 euro. In Francia i prezzi dei biglietti sono decisamente più alti: Versailles 25 euro, la Tour Eiffel 17 euro. La soprintendenza sta rivedendo il costo dei biglietti, soprattutto nelle fasce orarie di maggior afflusso. “Fa bene a rivedere i prezzi e anche Franceschini, che ha annunciato il lancio di una biglietteria nazionale online dei siti archeologici. Ma perché lo Stato non gestisce in proprio tutta la prevendita dei biglietti dei siti archeologici, incassando tutto il ricavato, istituendo la biglietteria unica nazionale? Che bisogno c’è dell’intermediazione dei privati?”, domanda Mazziotti. “Oggi sulla prevendita online fatta dai concessionari, l’incasso dello Stato è quasi pari a zero”.
Intermediari a caro prezzo. La parte che va allo Stato dalla vendita dei biglietti, l’86%, ammonta a 35 milioni e 639 mila. “Ma è troppo poco”, commenta Mazziotti. “Nel confronto con altri siti archeologici del mondo – spiega il deputato – il prezzo del Colosseo è troppo basso. Perché?”. Quanto l’ingresso al Colosseo costa quello al Partenone di Atene. Entrare alla Sagrada Familia di Barcellona costa già di più, da 15 a 20 euro. In Francia i biglietti sono decisamente più cari: Versailles 25 euro, la Tour Eiffel 17 euro. La soprintendenza sta rivedendo i prezzi dei biglietti, soprattutto nelle fasce orarie di maggior afflusso. “Ma perché lo Stato non gestisce in proprio la vendita dei biglietti dei siti archeologici, incassando tutto il ricavato, istituendo la biglietteria unica nazionale? Che bisogno c’è dell’intermediazione dei privati?”, domanda Mazziotti.
I conti sballati dei servizi aggiuntivi. Il cahiers des doleances di Mazziotti riguarda però anche la gestione dei servizi aggiuntivi. Stando all’unica convenzione attualmente in vigore e risalente al 1997 (governo Prodi I, ministro Walter Veltroni), scaduta da anni ma ancora apparentemente – e incredibilmente – in vigore, l’incasso avrebbe dovuto essere così ripartito: il 30,2 per cento del totale del fatturato del servizio alla soprintendenza, il resto ai concessionari: Mondadori Electa e Coop Culture. Il deputato di Scelta civica ha scoperto che allo Stato, dal 2001 a oggi (da quando i dati sono disponibili), non sarebbe andato quel 30,2 per cento. Ma solo, e inspiegabilmente, l’11,9 per cento. Mondadori e CoopCulture sostengono che su una parte dei servizi (per esempio le audioguide), il canone non era dovuto, ma la concessione non lo dice. Per fare chiarezza su questi “misteri” nei conti, Mazziotti ha deciso di presentare una interrogazione al ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini.
“Al ministro – spiega il parlamentare – voglio chiedere due cose. Prima di tutto se sia legale la situazione di questi ultimi 5 anni in cui il servizio è gestito in modo ‘abusivo’, cioè senza atti formali neanche di proroga, ad eccezione di una circolare che però doveva essere provvisoria”. “La seconda questione che porrò a Franceschini – aggiunge il presidente della commissione Affari Costituzionali – riguarda la contabilità. Perché lo Stato avrebbe incassato quasi il 19 per cento in meno rispetto a quanto previsto dall’unico accordo vigente? Su 74milioni di euro di incasso lordo maturato dalla gestione dei ‘servizi aggiuntivi’, lo Stato ha infatti incassato 8,9 milioni, anziché 22,4 milioni di euro”. “Perché nessuno ha mai protestato? Mancano all’appello circa 13,5 milioni di euro. Se i conti che ho fatto elaborando i dati del ministero sono corretti, il ministro dovrebbe cercare di recuperare quei soldi. O esistono atti o documenti che esentano dei servizi dal canone?”. In attesa della risposta del ministro, il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, ha incaricato l’avvocato Leopoldo Facciotti di presentare un esposto alla procura della Repubblica e alla Corte dei Conti. “Quanto emerso sul Colosseo – sottolinea – merita un chiarimento da parte della magistratura”
La denuncia delle guide. “L’attuale gestione non garantisce libertà di mercato, né alle guide, né ai visitatori, né alle agenzie turistiche”. Isabella Ruggiero, fondatrice dell’Associazione Guide Turistiche Abilitate Roma (Agtar), mostra quelle che ritiene le prove delle irregolarità: “Ho telefonato al call center per prenotare un turno di ingresso per un gruppo che aveva chiesto una visita con noi”, racconta. “Alla mia richiesta per la mattina del 27 dicembre scorso, domenica, mi è stato risposto che non c’erano turni disponibili, dato confermato anche dal sito online. Ho ritelefonato facendo la stessa richiesta, ma con visita condotta dal personale di CoopCulture. E miracolosamente lo spazio c’era: tutta la mattina era libera”. Così in alta stagione le agenzie sono costrette a prendere i turni accompagnati dalle guide di CoopCulture e a cancellare le loro guide ‘esterne’. Inoltre, se il gruppo non riesce ad avere la prenotazione, si impedisce alla guida di entrare e di svolgere il servizio per cui è abilitata. E poi perché se un gruppo vuole visitare il Colosseo con la propria guida deve pagare 2 euro a persona di prenotazione, mentre non li paga se accetta di visitarlo con il personale interno?”.
Durante le aperture serali in primavera-estate i visitatori non possono usare la guida che vogliono, ma solo quelle di CoopCulture, a meno che non comprino un intero turno. “Io non posso spiegare neanche a mio padre, se non pagando in anticipo 18 euro per 24 biglietti, vale a dire 432,00 euro per una sola persona!”, denuncia ancora Ruggiero. E comunque anche in questo caso trovare i turni liberi è come giocare alla roulette: lo scorso anno, gli orari buoni non erano più disponibili già 3 mesi prima. Per non parlare dei turni di accesso ai sotterranei, che vengono venduti al telefono una volta ogni 3 mesi, scatenando l’accaparramento e facendo sì che dopo 3 ore già non ci siano più possibilità. Agtar sta inviando una segnalazione all’antitrust, l’Agcm. “Negli ultimi mesi abbiamo chiesto varie volte un incontro al soprintendente, gli abbiamo mandato lettere e email, tutto sistematicamente ignorato. Abbiamo fatto la richiesta di accesso agli atti ed è stata respinta. Siamo preoccupati dal fatto che la soprintendenza, l’organo atto a controllare il Colosseo, si rifiuti di parlare e interagire con i professionisti che nel monumento ci lavorano tutti i giorni, portando migliaia di turisti”

La nuova partita si gioca sulle soprintendenze

di Arianna Di Cori
ROMA  – “Niente più pareri diversi – assicura il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini – Le soprintendenze parleranno d’ora in poi con un’unica voce a cittadini e imprese riducendo tempi e costi burocratici”. “È una riforma nata senza un progetto, navighiamo a vista. Quando Franceschini ci parla di valorizzazione dimentica una cosa importante: i musei, soprattutto quelli piccoli, più che una fonte di reddito sono sempre stati il centro nevralgico della cultura nelle varie zone d’Italia. Mi chiedo cosa intenda dunque. Vuole che nei musei locali organizziamo i balli delle debuttanti?”. La voce è quella di uno delle decine di archeologi che in queste prime settimane del 2016 assediano via del Collegio Romano, sede del ministero.
Perché quest’anno si conclude il processo di riorganizzazione del Mibact, come previsto dalla riforma approvata nel 2014. Via quindi alla fusione delle soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio e alla creazione di 10 nuovi musei autonomi, i cui direttori saranno selezionati con un bando internazionale, esattamente come è stato per i primi il 20 dello scorso agosto.
Dalle nomine alle competenze, dal ruolo dei privati al controllo del territorio, sono tanti gli aspetti delicati che sono stati rivoluzionati. A uscire stravolte sono in particolare le soprintendenze, le strutture periferiche e operative del ministero che sul territorio si occupano quotidianamente di beni culturali. Ad esse infatti la riforma lascia le sole competenze di tutela e conservazione, mentre le espropria di tutto ciò che riguarda la valorizzazione, a cominciare dai musei. In più – avvertono gli addetti ai lavori – c’è il combinato disposto  “dello smantellamento della tutela” contenuto nella legge  Madia approvata ad agosto.
Non solo per l’articolo 3 che introduce il principio di silenzio-assenso (la soprintendenza ha 60 giorni per esprimere un parere contrario) con il rischio di nascita di aberrazioni urbanistiche e cementificazione selvaggia. Ma anche perché, in nome della semplificazione, le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e quindi sotto il ministero dell’Interno, rischiando di perdere l’autonomia garantita dall’articolo 9 della Costituzione e di creare continui conflitti tra vincoli paesaggistici e interessi localistici. “Ma noi vogliamo alleggerire le soprintendenze, togliere a loro problemi ”, risponde Ugo Soragni, direttore generale Musei che guiderà i poli museali regionali.
I poli museali, istituiti a dicembre 2014, sono in funzione dall’estate 2015 con il compito di decidere le strategie di valorizzazione, valutando di volta in volta dove esporre le opere ritrovate e gestire il rapporto con i concessionari privati. La seconda fase della riforma ha accorpato ai poli alcuni musei ed aree archeologiche rimaste alle soprintendenze (ad esempio l’area archeologica di Tarquinia), ma allo stesso tempo tirandone fuori strutture che diventeranno autonome e dunque soggette a un cambio di direttore.
Le nuove soprintendenze saranno 39 in totale, più le due speciali di Roma e Pompei e si occuperanno di 7 settori differenti (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Ancora non è chiaro chi le dirigerà né se ci sarà una rotazione. Un archeologo, dunque, potrebbe dover decidere il destino di una pinacoteca, mentre un architetto ritrovarsi a capo di uno scavo di una domus romana. Nel frattempo il problema, come denuncia l’Rsu della Cgil, resta la carenza di risorse umane: “Ogni anno vanno in pensione circa 3000 persone che non vengono rimpiazzate. Questa è un’operazione di pura ragioneria e le 500 nuove assunzioni previste dalla riforma sono solo palliativi e qui sembra che vogliano dare il colpo di grazia al patrimonio culturale”.
Le proteste si fanno sentire anche sui social. “Tra noi addetti ai lavori si respira un’aria di frustrazione e scoramento. Pochissime le assunzioni, troppi i sottopagati, spesso si ricorre ai volontari”, spiega Leonardo Bison, giovane archeologo tra i fondatori della comunità Facebook “Mi riconosci, sono un professionista dei beni culturali”. Il gruppo, che si autodefinisce “Campagna sull’accesso alle professioni e sulla valorizzazione dei titoli di studio del settore dei beni culturali”, ha raccolto quasi 6000 adesioni in un mese. Sono loro ad aver denunciato un bando di selezione per volontari del Servizio civile nazionale da impiegare nei luoghi della cultura con diverse mansioni tecniche.
“È normale che in un processo di cambiamento ci siano resistenze – replica Soragni – e il nostro paese è tendenzialmente conservatore in ogni sua manifestazione”. Intanto, però, si annunciano ricorsi amministrativi, si attendono i decreti ministeriali, si aspettano giudizi di costituzionalità che possano incidere su una lotta intestina al ministero, che ogni giorno si fa piu’ tesa.

Il direttore generale: “Più spazio ai mecenati”

di Arianna di Cori e Alice Gussoni
ROMA – Di fatto con la riforma Franceschini ricopre il ruolo più importante, quello di responsabile della Direzione generale musei. Ufficio nel complesso seicentesco di via di San Michele, a Roma, l’architetto Ugo Soragni, sostiene di doversi ancora abituare alla nuova poltrona: “E pensare che è già passato un anno”. Era la vigilia del Natale 2014 quando ricevette la chiamata dal ministro Franceschini e volò a Roma lasciando la sua posizione di direttore regionale dei Beni culturali in Veneto dopo 7 anni. Il primo nome che si era fatto per la Direzione musei era quello di Anna Maria Buzzi, sorella di Salvatore, uno dei personaggi di “Mafia Capitale”. Quella nomina è tramontata ed è arrivato Soragni, uno studioso che ha ricoperto ruoli importanti nelle soprintendenze di tutta Italia, dalla Puglia al Friuli Venezia Giulia.
La Direzione generale musei avrà il compito di indirizzo e controllo dei Poli museali regionali e dovrà gestire il budget da destinarsi a ogni singolo museo, esclusi naturalmente i 20 ad autonomia speciale. Ma a quale modello gestionale si ispira questa riforma?
“La massima valorizzazione di questi musei e la capacità dei loro direttori di interloquire con tutti i soggetti che agiscono in questo settore sono fattori essenziali. Quindi capacità di dialogo con i privati anche al fine di raccogliere risorse finanziarie o organizzative e poi capacità di avviare relazioni a livello nazionale e internazionale con altri musei”.
Quindi si intende incentivare ancora di più la partecipazione dei privati?
“Certamente. Il dialogo con i privati è fondamentale per raccogliere risorse finanziarie e organizzative. Noi vogliamo fare di questi musei dei luoghi vivi, in cui si possa passare una giornata piacevole, mangiare, trascorrere del tempo con la famiglia”.
Lei non vede il rischio che i privati possano in questo modo influenzare le decisioni da prendere in un museo, ad esempio entrando a far parte del Consiglio di amministrazione?
“I privati, se entrano nell’amministrazione, lo faranno in quanto esperti di chiara fama. Inoltre i componenti del Cda e del comitato scientifico devono anche essere espressione del territorio. Ad esempio c’è un membro nominato dal presidente della Regione e uno nominato dal sindaco del Comune in cui ha sede il museo”.
Come funzionano invece le fondazioni museali – il Museo egizio di Torino e quello di Aquileia – rispetto al rapporto coi privati?
“In quei due casi siedono nel Cda anche rappresentanti di fondazioni bancarie o espressioni di imprenditoria di quelle zone. Perché avere nel Cda come nel caso del Museo egizio la fondazione San Paolo di Torino significa poter avere delle garanzie finanziarie che possono aiutare la promozione delle attività del museo”.
A proposito di fondazioni bancarie, i maggiori donatori finora nell’ArtBonus risultano la fondazione Cariverona e Unicredit. Hanno donato 7 milioni a testa per l’Arena di Verona, ma per esempio la Fondazione Cariverona partecipa alla Fondazione Arena di Verona, che organizza il festival lirico, quindi è come se donasse a se stessa…
“Ma questo non significa nulla. I soldi sono stati donati per il restauro del monumento”.
Che poi verrà utilizzato dalla stessa per il festival lirico..
“Eeeh…e poi insomma, le fondazioni bancarie non sono banche, devono fornire questo tipo di iniziative. E poi sapete quanti soldi danno?…”.
E per quanto riguarda la sponsorizzazione invece, altra possibilità offerta dall’ArtBonus?
“Le sponsorizzazioni sono come contratti di appalto e sono messe a bando. In pratica io restauro la facciata di un certo monumento e in cambio ottengo la pubblicità, ovvero l’associazione del mio marchio e del mio nome all’intervento”.
Torniamo alla riorganizzazione museale. Parliamo di mostre. Si chiude l’era dei “blockbuster”?
“Certamente. C’è una tendenza nazionale che deve essere invertita. Le grandi mostre non possono essere quattro all’anno ma una, o addirittura una ogni due anni. Al momento si punta sul maggior numero di opere conosciute e il catalogo altro non è che il riassunto dei testi scritti sull’argomento. Non c’è ricerca. Se ricordate la mostra di Vicenza, fatta da Goldin: ‘Da Tutankamen a Caravaggio’. Quelle sono le classiche mostre che fanno anche 150mila visitatori ma che non sono sorrette da un’idea. La mostra deve ritornare ad essere espressione di un percorso di ricerca”.
Altro capitolo spinoso: servizi aggiuntivi. Lo stesso Franceschini ha dichiarato: ”È inammissibile che lo Stato non guadagni soldi”.
“I direttori attuali non hanno alcuna intenzione di assecondare questa tendenza e i nuovi appalti di servizi saranno mirati in modo da invertire quanto avvenuto finora. Tra l’altro tutti i contratti di affidamento dei servizi aggiuntivi sono scaduti e in regime di proroga. Questo ci permetterà di seguire un nuovo corso senza essere pregiudicati da clausole, possiamo ripartire da zero”.

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