Fonte: Corriere della Sera
di Giovanni Valotti
Il futuro è tutto da costruire ed è importante farlo senza pregiudizi
Capita di assistere negli ultimi tempi a dibattiti che vedono protagoniste le élite del Paese, la cosiddetta classe dirigente, da un lato spiazzata per una trasformazione di un quadro politico che in realtà altro non è che lo specchio di un mutato sentire comune della gente e dall’altro preoccupata per un futuro dalle tinte fosche, giudicato incerto e denso di minacce. Colpisce il fatto, tuttavia, che i numerosi e continui richiami ai rischi per il futuro vengano in larga misura interpretati dal cittadino comune come una difesa dello status quo se non, ancora peggio, rigettati quali affermazioni false o strumentalmente utilizzate per ostacolare i processi di riforma. Sottostante a questa evoluzione non ci può essere altra spiegazione che una drammatica perdita di credibilità della classe dirigente, perché proprio a questa si imputa la responsabilità della situazione in cui versa oggi il Paese. Aiuterebbe, forse, il fatto che le élite cominciassero a fare un po’ di autocritica sugli eccessi di un modello capitalistico che negli ultimi anni ha conosciuto pericolose derive finanziarie, accentuato gli squilibri nella distribuzione della ricchezza per ceto e territorio, sottovalutato la questione giovanile e al tempo stesso quella dell’invecchiamento della popolazione, sollevato numerosi dilemmi etici legati al prevalere dell’interesse individuale su quello collettivo.
È mancata forse, in tutto questo, una visione ideale del modello sociale ed economico, capace di disegnare un futuro nel quale le persone possano riconoscersi e all’interno della quale meglio sarebbero stati compresi i sacrifici chiesti dalle politiche del rigore degli ultimi anni, il possibile ruolo del mercato nel soddisfare i bisogni dei cittadini, l’esigenza crescente di integrazione tra pubblico e privato per promuovere il benessere collettivo. Il rischio, viceversa, è che vada affermandosi una visione distorta delle dinamiche del sistema economico e del ruolo dei diversi attori all’interno dello stesso. A un privato che «pensa solo al profitto» si contrappone allora un pubblico che si fa carico delle esigenze dei cittadini, in tutto questo superando decenni di denunce dei cosiddetti «carrozzoni pubblici» e delle collegate ingerenze della politica.
In realtà, quello di cui ha bisogno il Paese è proprio il rilancio dell’iniziativa privata, quella che ha fatto la storia dello sviluppo economico nel dopoguerra, quella per cui siamo conosciuti nel resto del mondo, quella dei tanti imprenditori capaci di innovare, assumersi i rischi, investire e creare occupazione, quella in grado di valorizzare lo spirito di iniziativa individuale e la creatività che sono da sempre le nostre caratteristiche distintive. Il tutto a condizione che maturi una nuova visione sociale dell’impresa, capace e preoccupata di redistribuire il valore generato. Non abbiamo bisogno di un pubblico imprenditore. Abbiamo già fallito troppe volte su questo piano. Troppi sono i vincoli, troppa la distanza culturale e nelle modalità di funzionamento, troppe le rigidità per operare con l’efficienza, la snellezza e la rapidità necessarie. Al contrario, ci serve un settore pubblico riqualificato nelle competenze, capace di svolgere le funzioni fondamentali di elaborazione delle politiche e di regolazione nei diversi settori. Insomma, un pubblico più cervello e meno macchina. Nel mezzo, tante positive esperienze di collaborazione pubblico-privato, come dimostrano i big player a livello nazionale che sebbene soggetti a controllo pubblico hanno aperto il capitale a partecipazioni private, esaltando la loro natura di impresa. Così come hanno saputo fare anche alcune imprese totalmente pubbliche, capaci tuttavia di differenziarsi dal modo di operare della più tradizionale pubblica amministrazione. Insomma, se il passato non è più credibile, il futuro è tutto da costruire. Importante farlo senza pregiudizi e valorizzando le qualità che ciascuno dei diversi attori del sistema economico può mettere in campo.