Nel 2024 le donne rappresentavano il 23,3% dei membri dei Consigli dei Ministri alla guida di un settore specifico della politica nazionale
A dispetto degli ambiziosi obiettivi delle Nazioni Unite per il 2030, le statistiche dell’agenzia per le Donne (UNWomen) sono impietose. A far data dal 1° ottobre 2024, sono 29 i Paesi in cui 30 donne ricoprono il ruolo di Capo di Stato e/o di Governo. Solo 19 Paesi hanno una donna come Capo di Stato e 17 Paesi hanno una donna come Capo di Governo. Al livello globale, al 1 gennaio 2024 le donne rappresentavano il 23,3% dei membri dei Consigli dei Ministri alla guida di un settore specifico della politica nazionale.
Solo 15 Paesi con 50% di donne ministro
Sono appena 15 i Paesi in cui le donne occupano il 50% o più delle posizioni di Ministri responsabili di aree politiche. Tra questi, in Europa, c’è solo la Spagna. I cinque portafogli più frequentemente assegnati alle donne sono: Pari opportunità e uguaglianza di genere; Affari familiari e dell’infanzia; Inclusione sociale e sviluppo; Protezione sociale e sicurezza sociale; e Affari indigeni e delle minoranze. Nelle aule parlamentari non va particolarmente meglio. Solo il 26,9% dei parlamentari nelle camere uniche o basse è costituito da donne, con un aumento di 15 punti percentuali in ventinove anni. In Europa, questa percentuale supera di poco il 40% solo in 13 Paesi, tra i quali non compare l’Italia che si ferma al 32,3%. La percentuale più bassa in Europa, il 14%, si registra in Ungheria, ormai in preda a derive illiberali da un decennio. A livello globale, ci sono 21 Stati in cui le donne rappresentano meno del 10% dei parlamentari nelle camere uniche o basse.
La parità di genere arriverà nel 2063
Le Nazioni Unite segnalano che, al ritmo attuale, la parità di genere negli organi legislativi nazionali non sarà raggiunta prima del 2063. Neanche nei Paesi del G20 il quadro è più positivo: secondo i dati della Banca Mondiale, solo Argentina e Messico registrano percentuali significative di donne in parlamento, rispettivamente con il 43,2% e il 50%. Tra le economie del G7, invece, spiccano Francia e Australia, ma con percentuali più modeste, vicine al 40%. Le percentuali si abbassano ovunque se si conta la presenza delle donne negli esecutivi, con l’Italia che scende al 26,7%. Queste percentuali offrono una visione limitata della reale capacità o possibilità di alcune donne di ricoprire ruoli chiave in momenti politici cruciali o di assumere incarichi apicali di governo per periodi significativi, come nel caso di Angela Merkel. Tuttavia, tale circostanza, considerata isolatamente, non rappresenta necessariamente un segnale di un progressivo raggiungimento della parità di genere, indipendentemente dalla sincerità dell’impegno politico a favore delle donne da parte di chi ha raggiunto tali posizioni di potere. Desumere che la presenza di una donna possa essere “la rondine che fa primavera” confonde la dimensione individuale dell’esperienza politica e quella collettiva. La presenza femminile nei luoghi dove si assumono le decisioni politiche è essenziale per garantire un’effettiva parità di genere nella misura in cui tale presenza consente di occupare le agende politiche nazionali e mondiali con questioni che riguardano le discriminazioni sistemiche e individuali, la violenza contro le donne, le condizioni strutturali che non consentono la piena uguaglianza delle possibilità. La presenza femminile non è di per sé indice di un sicuro avanzamento della parità di genere.
Disuguaglianze economiche
E, infatti, anche nei Paesi con una forte rappresentanza parlamentare femminile, come Ruanda (61%), Messico (50%) ed Emirati Arabi Uniti (50%), persistono notevoli disuguaglianze economiche e un’altissima esposizione alla violenza per le donne. Questa ricostruzione invita a due riflessioni fondamentali. Primo, la presenza femminile nei parlamenti e nei governi non può essere valutata esclusivamente in termini quantitativi guardando al numero di seggi occupati. È necessario misurare la possibilità concreta delle donne di portare temi legati all’uguaglianza di genere al centro del dibattito politico, evitando che vengano relegati a politiche settoriali o ad hoc, non inserite nel quadro di un impegno più complessivo per l’eliminazione degli ostacoli alla piena eguaglianza. Secondo, la fioritura della democrazia pluralista dipende dalla possibilità delle donne di conquistare, non isolatamente, spazi decisionali anche su temi che trascendono la loro esperienza collettiva come gruppo umano, come la politica economica, le relazioni internazionali, la sicurezza e l’ambiente. In altre parole, per rappresentare davvero le donne, la politica deve andare oltre il semplice aumento numerico della loro presenza, trovando un equilibrio tra l’indispensabile dimensione rivendicativa e quella propositiva. Solo così sarà possibile integrare pienamente modelli e prospettive femminili nel dibattito politico, senza confinare le donne al ruolo di portavoce di una sola parte del mondo, ma riconoscendole come interpreti universali di una visione condivisa.