19 Settembre 2024

Fonte: Huffington Post

di Marco Lupis

Parte per Washington Qin Gang, uomo vicino a Xi Jinping. Ed è atteso l’annuncio di Nicholas Burns a Pechino

Le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono ai minimi storici, ma per fortuna le due diplomazie continuano a lavorare per tenere aperti i canali del dialogo e della ricerca di una collaborazione reciproca. Un’attività diplomatica molto intensa, che oggi ha segnato un punto importante con la partenza per Washington del nuovo ambasciatore recentemente nominato da Pechino, il giovane (per gli standard cinesi) Qin Gang: 55 anni, diplomatico “di lungo corso”, già potente viceministro degli esteri molto vicino al presidente Xi Jinping (che ha sempre accompagnato all’estero), ma senza nessuna esperienza “americana” al suo attivo. Qin è partito per gli Usa da Shanghai questo pomeriggio, quasi in concomitanza con la conclusione della visita di due giorni della vicesegretario di Stato americana, Wendy Sherman, a Tianjin, dove questa ha incontrato la sua controparte cinese, Xie Feng. Dal canto loro, gli Stati Uniti dovrebbero nominare a breve Nicholas Burns, diplomatico di carriera e professore a Harvard, come ambasciatore in Cina, anche se il suo nome non è ancora stato ufficializzato dalla Casa Bianca.
Il tutto avviene poco dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che ieri aveva fermamente criticato il presidente Biden, affermando che “gli Stati Uniti rischiano il disastro se il suo team proseguirà nelle “politiche cinesi sbagliate” di Trump”. La mancata gestione delle relazioni tra Cina e Stati Uniti sarebbe un “grande disastro”, ha affermato Wang, aggiungendo che gli Stati Uniti “dovrebbero stabilire una comprensione obiettiva e corretta della Cina … e tornare a una politica cinese pragmatica”. “Lo sviluppo della Cina non è basato sullo sfidare gli Stati Uniti, né sostituire gli Stati Uniti” ha detto ancora Wang. “Non siamo mai stati interessati a scommettere sulla vittoria o sulla perdita dell’America, e il progresso cinese non si basa sulla premessa del declino dell’America”, ha affermato il capo della diplomazia di Pechino.
I punti di non-accordo, diciamo così, tra Cina e Usa restano molti, e infatti durante il recente incontro i cinesi hanno nuovamente esortato gli americani ad annullare le sanzioni contro le aziende cinesi, oltre alle restrizioni sui visti per i membri del Partito comunista cinese e per i loro familiari. Pare che Wang Yi si sia anche lamentato con i suoi interlocutori americani per le continue limitazioni da parte di Washington nei confronti degli studenti cinesi all’estero e per la diffidenza e l’ostracismo manifestato peso apertamente nei confronti dei molto “chiacchierati” ’Istituti Confucio, che secondo Pechino sono degli innocui istituti di cultura cinese all’estero mentre, non solo secondo gli Usa, sarebbero veri e proprio centri di potere occulto, autentici “cavalli di troia”, dediti anche allo spionaggio nei paesi in cui sono insediati.
Le preoccupazioni dell’inviata americana Sherman, come previsto, si sono concentrate sul problema dei diritti umani: “la repressione antidemocratica di Pechino a Hong Kong, il genocidio e i crimini contro l’umanità nello Xinjiang, gli abusi in Tibet e la limitazione dell’accesso ai media e della libertà di stampa, sono un serio ostacolo al progresso delle relazioni tra i nostri due Paesi”, ha ribadito la vice segretario di stato americana. Che ha anche criticato apertamente la riluttanza della Cina a cooperare con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per una seconda fase di indagini sulle origini della pandemia. Una situazione che, secondo la Sherman, genererà nuove tensioni che vanno assolutamente risolte anche in vista dell’incontro in programma tra il presidente americano Joe Biden e quello cinese Xi Jinping, che dovrebbe tenersi a Roma il prossimo ottobre, in occasione del G20. Pechino non ha nemmeno perso occasione per accusare gli americani di scarsa “considerazione diplomatica”, notando come la visita di Sherman in Cina, che ha avuto luogo nella città portuale di Tianjin a causa delle misure anti-Covid attive nella capitale, è venuta solo “buona ultima”, dopo le tappe in Giappone, Corea del Sud e Mongolia. Una grave violazione della “forma”, secondo i cinesi, che alla forma e al protocollo sono molto sensibili e suscettibili
Una situazione, quella emersa dal vertice di Tianjin (casualmente – o forse no? – proprio la città natale del nuovo ambasciatore Qin) che non facilita certo il dialogo Usa-Cina, ma neppure intende mettervi una pietra tombale sopra. E il difficile compito di gestire questo complicato rapporto tra due superpotenze, che guardano l’una all’altra con sospetto e diffidenza reciproca, spetterà proprio al neonominato ambasciatore Qin. Ma chi è Qin, e perché Xi Jingping ha individuato in lui la persona giusta per un incarico non certo facile?
Nato a Tianjin nel 1966, Qin Gang si è fatto strada nei ranghi del ministero degli Esteri dopo esservi entrato come assistente junior nel 1992. Ha poi prestato servizio come diplomatico in Gran Bretagna e ha ricoperto ruoli sempre più rilevanti nel dipartimento informazioni del ministero. Nel 2018 è stato promosso viceministro degli affari esteri. Attualmente è il più giovane dei viceministri in carica. Chi lo conosce bene ha raccontato che Qin parla correntemente inglese ed è relativamente franco e diretto (per essere un diplomatico) nella difesa delle posizioni di Pechino. A febbraio, in una conferenza stampa sul vertice Cina-PECO (Paesi dell’Europa centrale e orientale), ha affermato che i paesi e gli individui che hanno diffamato la Cina non erano altro che “lupi malvagi”.
A maggio, durante un evento con l’ambasciatore dell’Unione europea a Pechino, Nicolas Chapuis, Qin si è reso anche protagonista di un mini incidente diplomatico, per un suo un commento “fuori protocollo”, nel quale, dopo aver lodato Chapuis per aver pronunciato le sue osservazioni in inglese e poi averle tradotte lui stesso in mandarino, aveva osservato scherzosamente: “Tutti hanno visto che l’ambasciatore Chapuis ha ricoperto tre ruoli: ”è stato l’oratore, l’interprete e l’ospite, il che è abbastanza economico”. La gaffe, in realtà, non è nata dalle parole di Qin, ma dal lavoro dell’interprete cinese, che ha tradotto “ospite” con il termine certamente molto poco diplomatico di “addetto alla reception” …

Ma a rendere ancora più complicato l’incarico del nuovo ambasciatore cinese negli Usa hanno anche parecchio contribuito le “dichiarazioni d’addio” , assai poco diplomatiche, del suo predecessore, il 68enne Cui Tiankai, “vecchia volpe” della politica e della diplomazia cinesi, che nella sua lettera “di congedo” dall’incarico ha scritto tra l’altro: “Le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono a un bivio critico, con gli Stati Uniti impegnati in un nuovo ciclo di ristrutturazione della loro politica governativa nei confronti della Cina, e si trovano di fronte a una scelta tra cooperazione e scontro frontale”.
Cui, che è rimasto al suo posto ben oltre la tradizionale età pensionabile che in Cina è di 65 anni, ha attraversato in prima persona otto anni di relazioni in disfacimento tra le due superpotenze: dalle tensioni dell’amministrazione Barack Obama al fuoco e alla furia dell’era di Donald Trump, fino all’incerta rivalità che si stava delineando sotto il nuovo presidente Biden. Nato a Shanghai nell’ottobre 1952, Cui è stato testimone di grandi eventi storici tra Pechino e Washington. Ha ricordato che quando Henry Kissinger visitò segretamente la Cina nel luglio 1971, lui stava lavorando in una fattoria nell’Heilongjiang nord-orientale durante il caos degli anni della Rivoluzione Culturale, e quando Jimmy Carter accolse l’ex leader cinese Deng Xiaoping nel prato sud della Casa Bianca nel 1979, stava studiando al dipartimento di lingue straniere dell’Università Normale di Shanghai. Il primo viaggio di Cui all’estero è stato parte della prima ondata di funzionari cinesi negli Stati Uniti, come traduttore con la delegazione cinese alle Nazioni Unite presso la sede di New York.
Un diplomatico “vecchio stile” – completamente diverso, a quanto pare, dal suo giovane successore all’ambasciata di Washington. Un rappresentante delle vecchia scuola della diplomazia cinese, insomma, e per dare un metro della sua “diversità” rispetto alle nuove generazioni di politici e diplomatici del Dragone, abituati a gestire la loro comunicazione più sui social media che nelle austere ambasciate, basti dire che Cui ha aperto il suo account Twitter solo nel giugno 2019.
Ora toccherà al suo “giovane” successore prendere in mano la gestione del difficile confronto tra Pechino e Washington, cominciando da quella vera e propria “patata bollente” che gli ha in qualche modo lanciato la Sherman la quale, in conclusione del recente incontro di Tianjin, ha sollevato forti preoccupazioni per la pressione sui giornalisti stranieri in Cina ricordando anche, senza utilizzare mezzi termini, come la Cina abbia processato due canadesi con l’accusa di attentato alla sicurezza nazionale, come evidente rappresaglia per l’arresto in Canada del capo finanziario di Huawei, Meng Wanzhou, ricercata negli Stati Uniti: “le persone non sono merce di scambio” ha detto, chiedendone l’immediato rilascio.

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