22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

Le circostanze sono diverse rispetto al 1975 ma il rischio è che, come avvenne dopo l’uscita dal Vietnam, le ripercussioni si manifestino ovunque

Kabul come Saigon? Quando nel 1975, dopo che, usciti sconfitti da una lunghissima guerra, gli americani si erano ormai ritirati, il regime comunista del Vietnam del Nord, superate le deboli resistenze dei sudvietnamiti, si impadronì di Saigon, la capitale del Sud. Le ripercussioni di quel fallimento si sarebbero manifestate ovunque. I cinque anni successivi vedranno l’Unione Sovietica all’attacco su molti fronti, dall’Africa all’America Latina, all’Europa: quest’ultima verrà messa sotto pressione dai sovietici sul piano militare(con il dispiegamento dei missili SS 20 puntati). La sconfitta in Vietnam, segnalando al mondo che l’America è ora debole, avrà, per l’Europa, anche altre conseguenze. Darà ancora più forza ai sentimenti antiamericani che nel vecchio Continente sono un’eredità dei movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta. È anche l’epoca in cui in Francia e soprattutto in Italia i partiti comunisti diventano elettoralmente più forti. Causa la sconfitta in Vietnam, a cui vanno a sommarsi la crisi economica e lo scandalo Watergate, l’America sembra in una fase di accentuato e irreversibile declino. E tanto per collegare quel passato al nostro presente ricordiamo anche un’altra cocente sconfitta americana di allora: la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979 seguita dalla umiliante vicenda degli ostaggi dell’Ambasciata americana a Teheran. Solo quando diventerà presidente Ronald Reagan nel 1981 il vento cambierà direzione, l’America riprenderà l’iniziativa, ricomincerà a contrastare con vigore le manovre dell’Unione Sovietica nei diversi scacchieri e alla fine la sconfiggerà.

Oggi le circostanze sono assai diverse ma ci vuole molta superficialità per credere che se i talebani si riprendessero l’intero Afghanistan a seguito del ritiro americano, ciò avrebbe conseguenze (sicuramente terribili, come tutti sappiamo) solo per gli afghani. Poniamo che l’Afghanistan non diventi, come tanti altri Stati falliti, il teatro di uno scontro , destinato a durare anni e anni, fra una pluralità di fazioni finanziate dai russi, dai turchi, dagli iraniani, eccetera. Poniamo che i talebani riescano davvero a impadronirsi di nuovo dell’intero Paese. Scopriremmo che Kabul è molto più vicina a noi di quanto pensiamo. Perché una vittoria talebana in Afghanistan avrebbe plausibilmente ripercussioni sull’intera galassia dell’estremismo islamico, galvanizzerebbe tutte le teste calde in circolazione dall’Indonesia alla Tunisia, dall’Africa sub-sahariana all’Europa. Diventerebbe un potente strumento di propaganda e di reclutamento per Al Qaeda, lo Stato islamico e per i tanti gruppi terroristi più o meno affiliati, la «prova» che gli infedeli possono essere sconfitti e sottomessi ovunque. Biden e i suoi collaboratori ci hanno pensato? Sicuramente sì ma al momento si comportano come se la cosa non li riguardasse.

Di sicuro riguarda noi europei, molto più esposti degli americani alla sfida islamista. Le minacce all’Italia di questi giorni («prenderemo Roma») non sono purtroppo folklore o un macabro scherzo: l’estremismo islamico si nutre di un’interpretazione della sua fede per la quale «Roma crociata» e l’Italia diventeranno necessariamente, prima o poi, territorio dell’islam. Ma l’intera Europa è terra di conquista.

Siamo stati in tanti a tirare un sospiro di sollievo quando Trump è stato sconfitto da Biden. Il precedente presidente, con i suoi attacchi all’Europa, stava facendo a pezzi ciò che restava dell’alleanza occidentale. Siamo stati in tanti a dire: finalmente, con Biden, l’America è tornata. Adesso però è tempo di cominciare a interrogarsi: dove sta andando esattamente l’America? E, soprattutto, quanto possiamo contare noi europei sul contributo americano di fronte alle minacce più gravi per la nostra sicurezza?

La priorità americana, è ben chiaro, è la competizione con la Cina per il primato internazionale. Ciò riflette lo spostamento del baricentro del potere mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Biden, è vero, sta anche tenendo testa a Putin, gli sta chiarendo che gli americani non permetteranno ai russi altre Crimee. Ed è pronto a ribattere colpo su colpo se le continue e ormai gravissime aggressioni degli hacker russi alle istituzioni occidentali (aziende, uffici governativi, eccetera) non cesseranno. Ciò è un’ottima cosa per l’Europa. È anche chiaro che Biden, impegnato in una gara di potenza con la Cina, è pronto a negoziare un accordo con Putin se quest’ultimo si dimostrerà ragionevole. Anche questo va bene. Ma c’è un ma. Dell’eventuale accordo farà anche parte l’accettazione da parte americana delle posizioni ormai conquistate dai russi in Libia e più in generale nel Mediterraneo? Questa , ovviamente, sarebbe una pessima notizia per noi europei.

Ancora, che cosa intende fare l’Amministrazione americana per contrastare la politica neo-imperiale del sultano Erdogan in Libia e in altri luoghi? Permetterà che il Mediterraneo diventi un mare russo-turco? E, infine, se, come è probabile una volta caduta Kabul, l’estremismo islamico, già oggi molto forte nel Sahel e in altri luoghi, si rafforzasse ulteriormente moltiplicando le minacce, l’Amministrazione riterrebbe sufficiente l’azione di contrasto che già oggi conduce, in Africa e in Medio Oriente (con droni, operazioni coperte, eccetera)?

Una volta riconosciuto che l’Europa non ha da sola le forze per fronteggiare le svariate sfide che incombono, la domanda diventa: quale potere contrattuale avranno gli europei, nei prossimi anni, per spingere gli americani a mantenere fede alle dichiarazioni più o meno solenni secondo cui le minacce all’Europa non sono solo un problema nostro ma anche un problema loro?

C’è, da un lato, la retorica, magari anche ottima, sulla necessità di una grande «alleanza delle democrazie» per contrastare gli autoritarismi. E c’è, dall’altro lato, l’attività politica quotidiana, fatta di continue scelte e non scelte. È un guaio se queste due dimensioni della politica si allontano troppo l’una dall’altra.

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