22 Gennaio 2025

Israele, nuovo fronte: raid e morti a Jenin. Le vite sospese dei palestinesi nei Territori della Cisgiordana, tra controlli stradali e attacchi. Jarrar, appena liberata: «In prigione contro di noi torture e umiliazioni»

La fila che porta al checkpoint di Ein Siniya è lunga quattro chilometri: passa una macchina ogni dieci minuti. A volte i giovani militari dell’esercito israeliano chiedono i documenti e fanno domande. Altre volte dicono di aspettare e si risiedono alle loro postazioni. Guardano il telefono. «Dall’inizio tregua, devono avere l’ordine di essere più lenti del solito per farcela pagare», dice sarcastica Sarah Abu Alrob, giornalista di Jenin seduta nel retro della macchina che dovrebbe portarci da Ramallah a Nablus.

Si controllano compulsivamente i gruppi Telegram che segnalano lo stato dei posti di blocco. Un report del 2023 della Nazioni Unite ha registrato 705 ostacoli permanenti in Cisgiordania che limitano il movimento veicolare palestinese. Checkpoint, sbarre, cancelli improvvisati. Negli ultimi mesi di guerra questa cifra è di gran lunga aumentata. Sarah riceve una chiamata dai suoi genitori che abitano a Jenin: «Mi hanno detto che l’Idf è entrata in città. Ci sono elicotteri e droni. Sentono spari». La radio dà notizie in arabo: Benjamin Netanyahu ha lanciato una massiccia operazione speciale chiamata «muro di ferro» nel campo profughi considerato il luogo più caldo della Cisgiordania occupata. Secondo i palestinesi la città della resistenza, secondo il governo israeliano una fucina di terroristi. Sarah sente gli amici di lì: «Sparano sulla gente, mi hanno detto che c’è un uomo a terra. Sono con le jeep e le ruspe».

A fine giornata, l’operazione ancora in corso conta già nove morti e 35 feriti. Qualcuno scende dalla macchina alla ricerca di una connessione internet migliore e per scambiarsi notizie. Le facce sono tese. Discutono fitti in arabo e poi traducono: «Questo attacco è il regalo di Netanyahu agli estremisti i Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Vogliono dirci che il cessate il fuoco a Gaza non corrisponde con una tregua delle incursioni in Cisgiordania. Hanno liberato 90 prigioniere palestinesi e due sere fa hanno arrestato altri 60 uomini. Coloni mascherati si aggirano per le nostre vie. Bibi non vuole la pace, cerca scuse per tornare a bombardare». Un anziano signore urla di rientrare in macchina che è troppo pericoloso: «Se arrivano i militari possono insospettirsi».

Su Telegram, scrivono che la media di attesa al checkpoint di Ein Siniya è di quattro ore.  Retromarcia. La persona che guida la nostra macchina racconta che la prima cosa che fa quando si sveglia è controllare il traffico ai posti di blocco: «Le strade sono un’ossessione. Sono una vera tortura psicologica. Non siamo liberi di programmare e disporre del tempo e dello spazio e quindi del futuro. L’occupazione non è solo una questione di territori, ti logora la vita» – non pronunciano mai «checkpoint», né la sua versione in arabo: usano il termine ebraico «Makhssom».

C’è solo una strada libera: si torna a Ramallah. In un caffè vicino al murale dedicato al poeta palestinese Mahmoud Darwish – «Pensavo che la poesia potesse cambiare tutto, potesse cambiare la storia e umanizzare, ma la poesia cambia solo il poeta» – un gruppo di giovani donne di Gerusalemme si prepara per andare a una festa organizzata in una chiesa cristiana per le prigioniere liberate nel primo giorno di tregua. Un centinaio di persone che arrivano da tutta la Cisgiordania attendono che entri Khalida Jarrar, leader del Fronte popolare di liberazione palestinese. È accolta come una star. I capelli bianchi che abbiamo visto nelle immagini da appena scarcerata sono tornati nero intenso. Indossa una mascherina perché è ancora molto debole e deve proteggersi dalle infezioni. Si beve del caffè arabo. «La condizione delle detenute in carcere è diventata insostenibile. Ci torturano, usano spray urticante, ci confiscano tutto, ci umiliano. A molte carcerate vengono vietate le visite dei familiari e degli avvocati. Sono stata sei mesi in una cella di isolamento. D’estate faceva così caldo che per cercare di prendere un po’ di ossigeno, mi sdraiavo a terra e attaccavo la bocca alla fessura tra il pavimento e la porta: le prigioni che rendono fiero Ben Gvir sono disumane», racconta al Corriere. Nella grande sala della chiesa, tutti parlano di Jenin. La paura è che Netanyahu allarghi le operazioni ad altre città della Cisgiordania, come Tulkarem. Shareef Husam ha 25 anni ed è di Jenin. Ci scrive mentre guarda fuori dalla finestra: «Stanno sparando a caso su tutto e tutti. Siamo spaventati e preoccupati che possa essere lunga». Bisogna andare via presto perché c’è il rischio che chiudano tutti i checkpoint. Se scrivi sul navigatore una qualsiasi città palestinese, ti esce un messaggio: sei davvero sicuro di volerci andare?

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