19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Milano duomo dall'alto

di Ferruccio de Bortoli

I piani strategici di questi enti potrebbero essere uno straordinario volano di investimenti e stimolare attività innovative. Ma nel nostro Paese prevale un modesto bricolage amministrativo, con troppe norme oscure e poche risorse chiare

Al referendum di ottobre si voterà anche per loro. La riforma Boschi elimina (giustamente) le Province e riconosce, tra le autonomie locali, le Città metropolitane. Anche alle prossime elezioni amministrative si voterà di fatto per loro. Sei sindaci eletti saranno a capo delle Città metropolitane. La legge Delrio (56 del 2014) ne ha istituite 10 (Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria) cui si aggiungono quelle delle Regioni a Statuto speciale (Palermo, Catania, Messina e Cagliari). Tutte hanno assorbito le relative Province. La loro vita è precaria, per usare un eufemismo. Sono fantasmi istituzionali. I sindaci le vivono come un ulteriore fardello che pesa sulle loro gracili spalle finanziarie. Ed è forse questa una delle ragioni del perché, nelle campagne elettorali, se ne parla così poco. In soli due casi (Bologna e Reggio Calabria) si è rispettato il patto di stabilità. Negli altri, il rosso è profondo.
La Città metropolitana di Milano, la più importante, dovrebbe chiudere il bilancio con un passivo di 90 milioni. I Comuni capoluogo non sembrano disposti a ulteriori sacrifici per ripianare i conti. Il governo deve decidere se sono o no uno strumento utile.
Le Regioni mal sopportano questi enti ibridi che gonfiano il peso specifico dei Comuni capoluogo, specie quando questi hanno un colore politico diverso (accade, per esempio, in Lombardia).
Gran parte dei dipendenti delle vecchie Province è stata assorbita, come prevedeva la legge, in altri uffici pubblici. Rimane una forza lavoro non sempre motivata, certo invecchiata. Le competenze sono, sulla carta, di estrema importanza (trasporti, sicurezza, acqua, rifiuti) ma non vi è chiarezza sulla divisione dei compiti e delle responsabilità con gli altri enti locali.
La legge Delrio lascia agli statuti delle Città metropolitane la possibilità di eleggere direttamente il vertice (Milano). Curioso perché si potrebbe avere un sindaco metropolitano (Cinisello ad esempio) diverso da quello della città capoluogo. Il tema più controverso è quello del finanziamento. Si era pensato a un’addizionale sulle tasse aeroportuali. L’idea è stata accantonata. Ma senza risorse proprie non c’è autonomia. Un fondo perequativo è già di difficile gestione con le vecchie Province, figuriamoci con i Comuni. Il governo non sembra orientato ad aggravare le tasse locali. I Comuni hanno già i loro problemi. La gente, forse non capirebbe.
Le città metropolitane non sono «né conosciute né riconosciute», dice Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente dell’Anci (l’associazione nazionale dei Comuni). Ma commetteremmo un grave errore se le considerassimo il residuo delle vecchie Province. Un ente inutile fin dalla nascita. Lo sviluppo in tutto il mondo passa dalle grandi città. La Greater London Authority, tanto per fare un esempio, ha speso in conto capitale, nel bilancio 2014-15, circa 1,7 miliardi di sterline. Un modello di grandi investimenti su poche funzioni-chiave: mobilità, edilizia, riqualificazione urbana. Altre capitali coinvolgono i privati, muovono grandi finanziamenti. Trascinano lo sviluppo dei loro Paesi. Le Città metropolitane italiane sono forse troppe. E per competere con i modelli stranieri non basterebbe nemmeno mettere insieme Milano e Torino (Mito, vecchia suggestione, del tutto attuale) né lavorare sulle aree vaste, previste dalla legge Delrio, come si sta facendo in Emilia e Romagna (Parma, Modena, Reggio).
Una recente ricerca dell’Anci, di The European House-Ambrosetti e di Intesa Sanpaolo ha mostrato le enormi potenzialità legate a una visione moderna delle aree metropolitane, definite la «spina dorsale» del Paese. Vero hub di risorse, competenze, flussi di persone, merci, capitali, idee. Autentico motore dello sviluppo. Coinvolgono il 36 per cento della popolazione, il 40 del valore aggiunto. Riuniscono il 35 per cento delle imprese e il 56 delle multinazionali. Vi hanno sede 55 atenei, metà delle start up innovative. I piani strategici delle Città metropolitane potrebbero essere uno straordinario volano di investimenti, garantire tempi di approvazione normali dei progetti, stimolare attività innovative. Un laboratorio pubblico e privato della modernità.
Purtroppo si sta andando nella direzione opposta, scivolando nell’anonimato istituzionale. Prevale un modesto bricolage amministrativo, con troppe norme oscure e poche risorse chiare. Con molti spettatori interessati al fallimento. Un vulnus inaccettabile per un Paese che stenta a crescere. Forse un ripensamento è necessario. Com’è indispensabile uscire dall’ambiguità. L’architettura istituzionale è ridondante, andrebbe sfoltita. Oltre al consiglio (sindaco più 14-24 membri, non pagati) — che per i Comuni al voto in giugno verrà rinnovato nei mesi successivi — c’è una conferenza metropolitana con i sindaci del territorio. Le competenze potrebbero essere alleggerite, assegnandone alcune direttamente ai Comuni (e le strade all’Anas). Le Città metropolitane potrebbero così concentrarsi sul loro ruolo di incubatori dello sviluppo e di fondi per la promozione degli investimenti. Qualche posto da occupare in meno, qualche idea per il futuro in più.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *