Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Molti italiani quando sentono parlare di immigrati dicono di provare paura: è questa la sensazione di doversela vedere da soli con il proprio disagio
Giacciono oggi in Parlamento, e molto probabilmente torneranno in discussione nelle prossime settimane, almeno tre proposte di legge volte a consentire agli immigrati di acquisire la cittadinanza italiana in misura più larga di quanto sia possibile oggi. Personalmente penso che sia un obiettivo giusto. Proprio chi è convinto dell’importanza della nostra identità storica e civile, della sua capacità di incarnare ed esprimere valori di carattere universale, non può non credere anche nella sua capacità di accogliere e alla fine d’integrare nella propria visione del mondo e della vita pure coloro che provengono da altre culture e i loro figli. Senza contare che se domani l’Italia sarà rappresentata da cittadini di un colore dalla pelle diversa dal bianco o con ascendenze e retaggi culturali estranei alla sua storia, ciò assai probabilmente accrescerà le possibilità d’irradiamento nel mondo del nostro Paese, di diffusione dei suoi commerci e della sua influenza. Da un punto di vista storico che però guardi anche all’avvenire, una nuova legge sulla cittadinanza corrisponde insomma a un vero e proprio interesse nazionale.
Ma dire questo non basta. Come non basta invocare motivazioni di carattere etico del tipo che sarebbe immorale discriminare gli immigrati privandoli di quello che molti considerano un diritto. Nel momento di prendere una decisione così importante come l’allargamento del diritto di cittadinanza, accanto al criterio dell’obbedienza ai principi ne dovrebbe essere sempre preso in considerazione anche un altro: quello di commisurare i principi alle conseguenze più o meno prevedibili della loro applicazione. Il «si deve» è certo importante, ma in politica come nella vita è perlomeno altrettanto importante chiedersi «si può?». Cioè: quali saranno gli effetti? Non a caso solo poche settimane fa mezzo mondo politico nostrano – vasti settori della sinistra inclusi – si è rivoltato contro una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale – in nome per l’appunto di un sommo principio etico, il carattere non afflittivo della pena – ha dichiarato illegittimo il cosiddetto ergastolo ostativo, quello cioè previsto dal nostro ordinamento che impedisce ai condannati per reati di mafia di usufruire di qualsiasi sconto o alleviamento della pena se si rifiutano di collaborare con la giustizia. Se è opportuno una volta non obbedire ai principi, perché un’altra volta bisogna obbedire?
Dunque, prima di pensare ad approvare una nuova legge sulla cittadinanza sembrerebbe meglio pensare all’atmosfera sociale del Paese in cui una legge del genere dovrebbe essere applicata.
Come è ampiamente noto se si parla d’immigrazione una parte molto grande d’italiani dice di non sentirsi in generale «sicura», di avere «paura» (parola sicuramente eccessiva che adopero perché è quella entrata ormai nell’uso del dibattito politico). Certo, inevitabilmente vi sono anche esponenti e forze politiche che si fanno «imprenditori» di tale paura, cioè che la cavalcano a fini elettorali. Ho detto inevitabilmente perché è un carattere proprio della politica cavalcare le paure della gente, motivate o meno che siano. Da che mondo è mondo è così, e non si vede per quale ragione, ad esempio, cavalcare la paura della «guerra» e additare come un pericoloso guerrafondaio questo o quell’avversario politico – come si fece molto spregiudicatamente a suo tempo da parte del Partito comunista – sarebbe stato una cosa tanto diversa da quella a cui assistiamo oggi. Per sua natura, infatti, la politica si alimenta delle paure e delle speranze: e spessissimo perciò anche delle più rovinose illusioni. Chi pensa che dovrebbe invece ispirarsi esclusivamente a razionalità e bon ton è meglio che si occupi d’altro.
Dunque molti italiani, forse la maggioranza, quando sentono parlare d’immigrazione dicono di provare qualcosa di abbastanza simile alla «paura». Coloro che amano passare per perfetti democratici attribuiscono perlopiù tale sentimento a un puro pregiudizio e/o alla perversa manipolazione degli «imprenditori della paura» di cui sopra. Sbagliano. Il razzismo e Salvini non c’entrano per niente. Converrebbe piuttosto chiedersi, invece, di che cosa in realtà quegli italiani abbiano paura. Principalmente di una cosa, io penso, di una cosa, che tenendo conto della loro età in genere avanzata e della loro condizione economica in genere non floridissima non è certo da poco: di essere lasciati soli. Soli a vedersela con l’immigrazione. Che per loro, a differenza della fascia benestante della popolazione, significa volti, cose, abitudini, situazioni, radicalmente diversi da quelli a cui sono abituati e che essi sentono come minacciosi, non foss’altro perché minacciano di cambiare significativamente il loro habitat. E di fatto lo cambiano, mettiamocelo in testa. Solo una somma ipocrisia può far credere, infatti, che non faccia alcuna differenza avere o non avere nel proprio palazzo tre o quattro famiglie di immigrati ovvero abitare o non abitare nei pressi di un campo nomadi.
È una paura che deriva dalla sensazione, di non poter contare – fatte salve condizioni di assoluta emergenza – su alcun aiuto o salvaguardia reali da parte dello Stato. Dalla consapevolezza che ognuno sarà chiamato a vedersela con il proprio disagio, con le proprie difficoltà, con la difesa del proprio buon diritto dovendo contare unicamente sulle proprie forze. L’esperienza insegna: nel caso dell’Italia l’immigrazione ha rappresentato una gravissima occasione di esercizio dell’illegalità, un’illegalità diffusa e capillare, di cui la gente non ha potuto non prendere atto. Per anni decine e decine di migliaia di persone sono entrate nel Paese contravvenendo a qualsiasi regola, si sono stabilite dove e come hanno voluto o potuto sostanzialmente indisturbate: spesso occupando abitazioni in modo abusivo, lavorando spessissimo fuori dalla legge, spesso dedicandosi alla malavita. Senza che lo Stato facesse valere il peso delle leggi (che finché esistono si fanno osservare, se no si cambiano). Che a tutt’oggi, per dirne una, questori e prefetti di molte province meridionali non ricevano dal Ministero degli interni disposizioni stringenti per spazzare via la vergogna di un mercato del lavoro agricolo che impiega in condizione di sostanziale semischiavitù legioni di immigrati, è solo una delle mille prove dell’ormai congenita propensione dello Stato italiano a venire largamente a patti con l’illegalità, a lasciare che le cose vadano per conto loro quando si tratta di questioni che riguardano il fenomeno migratorio (e che insieme, magari, riguardano anche gli interessi di un buon numero di agrari negrieri…).
La gente ha visto tutto ciò e ha tratto le sue conclusioni. Si è convinta sulla base dell’esperienza che lo Stato e la politica non abbiano né la volontà né la capacità di governare realmente il flusso degli immigrati. Se dunque si vuole che una legge sulla cittadinanza non sia percepita come l’ennesimo allentamento dei freni, come l’ennesima prova di una sgangherataggine permissiva che ha già fatto molti danni, il Parlamento farà bene ad accompagnarla ad altre norme che rafforzino la tutela degli italiani deboli, li garantiscano dai molti inconvenienti, spesso dai veri e propri piccoli e grandi soprusi quotidiani che per loro l’immigrazione ha fin qui significato.