L’alleanza di governo rischia quando la componente populista esonda.
L’opposizione paga la competizione interna e la debolezza dei «federatori»
Si fa presto a dire «unità». Nel fine settimana Meloni e Schlein hanno entrambe rivolto un appello alla coesione ai rispettivi schieramenti. Ma hanno a che fare con problemi molto diversi. L’hardware delle due alleanze è infatti composto da materiali differenti, e quelli del centrodestra sono più resilienti. Questo spiega perché, software dei programmi a parte, la macchina che oggi guida Giorgia Meloni da trent’anni regga meglio le buche.
Il primo elemento distintivo è che il centrodestra è una coalizione, nel senso letterale del termine: un’alleanza tra diversi, per andare al governo. Lo è fin da quando è nata, messa insieme da Berlusconi. E allora i «diversi» erano talmente diversi che il Cavaliere dovette stringere un’alleanza a nord con Bossi e una al centro-sud con Fini, perché i due al tempo non si davano nemmeno la mano. Il centrosinistra invece ha sempre oscillato tra l’ambizione al partito unico all’americana, a vocazione maggioritaria, e la deriva verso l’ammucchiata all’italiana, quale fu per l’appunto l’Unione di Romano Prodi nel 2006, poi andata in frantumi nel giro di due anni.
Il centrodestra insomma fa di necessità virtù, e la vanta anzi come una risorsa davanti agli elettori. Vi sono tollerati perfino tre voti diversi in Europa, uno per ciascuna componente, sulle armi all’Ucraina. Vi è perfino ammessa l’ingiuria nei confronti dell’alleato, come sul prato di Pontida contro Tajani «scafista». La competizione interna non può però varcare la porta del Parlamento. Quando questo succede, come nel caso dell’emendamento leghista contro la Rai, allora scatta l’allarme rosso. E infatti è dovuta intervenire la premier. D’altra parte il canone, come ogni aspetto del duopolio televisivo, è dogma di fede per Forza Italia, e Salvini lo sapeva.
Nel centrosinistra invece la competizione è senza regole e potenzialmente senza limiti; perché non c’è un contenitore unico, con un codice di comportamento accettato da tutti, e con confini invalicabili pena la fine dell’alleanza. Dunque ogni scontro può diventare un’escalation. Gli elettori lo sanno perché l’hanno già visto accadere al Prodi I e al Prodi II. Il difetto di fabbricazione è infatti all’origine, in quel conflitto tra D’Alema e il Professore che per l’appunto si incentrava sulla concezione dell’alleanza: centrosinistra col trattino o senza? Coalizione o nuova formazione politica?
Questa tara genetica affligge direttamente anche la figura del leader, che di solito a sinistra viene infatti scelto per le sue qualità di «federatore»: più un minimo comun denominatore che un capo. Qualcuno (finora mai qualcuna), che possa mettere d’accordo tutti magari perché non ruba voti a nessuno. Ci riuscì solo Prodi, papa straniero senza divisioni, senza un partito che potesse fare concorrenza ai confederati.
Arriviamo così all’altro materiale più resiliente di cui è composto il centrodestra: la leadership. Questa coalizione ha infatti ormai accettato, e più volte sperimentato, una tecnica per scegliere il capo: candidato premier è il leader della forza più grossa nei sondaggi. Cioè colui o colei che sia riuscita a conquistarsi i favori di quel 10-15% del corpo elettorale in cui si annidano le più forti pulsioni populiste. La competizione è dunque utile a tutta la coalizione, perché allarga la base del consenso.
Una volta al governo, la durata e il successo del leader dipenderanno però da quanto sarà in grado di combinare il radicalismo di quel flottante con le compatibilità di finanza pubblica e le responsabilità di politica estera. Berlusconi ci è riuscito per una legislatura e mezzo, fino alla crisi del debito sovrano del 2011, e infatti da allora non è più tornato a Palazzo Chigi. Salvini, all’apice del successo elettorale, non riuscì invece a trasformarsi in un uomo di Stato, e così la sua stagione di leadership nel centrodestra è durata lo spazio di un mattino. Meloni ci è finora riuscita, mantenendo i suoi consensi pressoché intatti pur firmando una legge di Bilancio così prudente che l’Europa l’ha promossa, mentre rimandava la Germania e bocciava l’Olanda, Paesi un tempo virtuosi.
Il rischio vero di frattura nel centrodestra, o tra il centrodestra e il Paese, è infatti tutto lì. Se cioè la componente populista esonda, rendendo l’intera coalizione «unfit to lead», inadatta a governare, per citare un celebre titolo dell’Economist. Finché questo non accade, il cemento dell’unità è garantito dal semplice stare al governo.
Nel centrosinistra, invece, l’inaffidabilità «governativa» dei Cinquestelle è organica e strutturale, perché è il contenuto stesso della competition con il Pd: il radicalismo è infatti l’unica frontiera sulla quale Conte può giocare le residue chance di guidare di nuovo l’alleanza. Da questo punto di vista è più pericoloso lui per l’unità del «campo largo» di quanto non lo sia Salvini per il centrodestra. Perché il leghista compete ormai solo per il secondo posto, mentre il pentastellato può sognare di fare il primo anche da secondo.