Fonte: Corriere della Sera
di Dacia Maraini
La questione è culturale: dobbiamo difendere con più fermezza gli ideali in cui crediamo e le nostre conquiste
«Mi hanno stracciato la camicetta, mi hanno messo le mani addosso, mi hanno rubato il telefonino, mi hanno sottratto il portafoglio, mi hanno cacciato un petardo sotto la maglia, mi hanno umiliata e offesa». Queste alcune delle testimonianze che vengono fuori sempre più numerose e precise. Ma dai gesti descritti possiamo riconoscere l’appartenenza a una fede religiosa? No, se riteniamo che le religioni siano una cosa seria, che predica il buon senso e l’armonia. Sì invece se una banda di dispotici aggressori, per giustificare la propria volontà di potenza, chiama in causa un Dio collerico e intollerante che impone di uccidere chiunque non si sottoponga al suo culto, propugna la schiavitù e chiede la decapitazione dei prigionieri. I terroristi vogliono spargere paura e sgomento, vogliono dominare e distruggere. Ma siccome non possono compiere i loro crimini in nome del puro egoismo, si richiamano a precetti religiosi arcaici e storicamente morti.
Come se noi prendessimo alla lettera la Bibbia, libro scritto in una epoca in cui la schiavitù era ammessa e legale, in cui la giustizia si identificava con la vendetta, in cui la pena di morte era praticata ogni giorno, in cui la tortura era considerata lecita, in cui gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati, in cui le donne non avevano diritti civili, in cui le classi abbienti depredavano e sfruttavano le classi povere.
Da noi c’è stato Gesù Cristo che ha sconvolto e rovesciato le prescrizioni della Bibbia: le parole «amore» e «perdono» hanno sostituito il «dente per dente» e l’odio di religione. Nei Paesi musulmani un Gesù è mancato, ma è invalsa la prassi di una saggia convivenza fra popoli e culture diverse. In certi momenti di crisi però si sente la mancanza di un libro sacro che reclami l’amore per il prossimo e la misericordia, come predica il Vangelo. Dove c’è misericordia non può esserci guerra, mentre i nostri terroristi si nutrono di guerra. La loro massima aspirazione è coinvolgere il mondo intero in una guerra santa in cui scannarsi ciecamente in nome di Dio.
Che c’entra tutto questo con le molestie contro le donne in una piazza tedesca in un giorno di festa? In realtà c’entra, soprattutto se si riconoscerà che i molestatori sono giovani emigrati. Ma emigrati di oggi o di ieri? È importante fare la differenza. A me sembra difficile che i migranti di oggi, che hanno rischiato la vita per mettere piede su una terra straniera tanto evocata, siano così stupidi da compromettere la loro permanenza con atti di teppismo. Credo piuttosto che siano emigrati di seconda o terza generazione (Formigli ci ha mostrato con testimonianze dal vivo, che le carte di identità da profugo si comprano al mercato nero), ragazzi che si sono sentiti discriminati e oggi sono affascinati da una violenza che li rende improvvisamente protagonisti. Fare paura, per chi si considera socialmente debole, dà una profonda soddisfazione, appaga le umiliazioni trascorse e fa sentire superiori, potenti, privilegiati da Dio.
Se ci chiediamo poi perché la polizia non sia intervenuta in tempo e perché abbia sottovalutato i gesti di questi giovani maschi infoiati, potremmo rispondere che anche in certi nostri figli di una storia patriarcale, alberga l’idea che strapazzare giovani donne che osano girare libere e sole per strada, sia in fondo una «ragazzata» da comprendere e lasciare correre. Così come considerano «ragazzate» le minacce di tanti mariti e fidanzati che intimidiscono le loro mogli col coltello e la pistola. La sottovalutazione è un atteggiamento culturale, non una debolezza psicologica. Provate a denunciare una molestia sessuale. Vi troverete davanti un agente scocciato, a volte divertito, poco disposto a prendere sul serio una «sciocchezza del genere». Oppure comincerà un interrogatorio in cui si chiederà alla ragazza com’era vestita, come si è comportata, facendole capire che in qualche modo, se l’è cercata.
Ancora per molti occidentali la donna è prima di tutto una proprietà e come tale va rispettata. Ma nel momento in cui sfugge al suo possessore e rivendica la sua libertà di movimento e di scelta, diventa pericolosa, una nemica da punire, e a volte perfino da sopprimere. Non si tratta, come ripeto, di una questione di genere, ma di cultura: e riguarda chi identifica la propria virilità con la proprietà dell’altro.
Ma allora, cosa fare? Prima di tutto direi, disfarsi della idea facile che esistano le categorie, sessuali o religiose, ma fare uno sforzo per riconoscere i responsabili degli atti di violenza, da qualunque parte stiano, e applicare la legge che li punisce. Ma per fare questo è necessario difendere con più fermezza le nostre conquiste di parità e libertà, sancite dalla Costituzione. È necessario distinguere fra rispetto e relativismo. Il relativismo troppo spesso significa appiattirsi acriticamente sui valori altrui. Rispetto significa invece esigere dall’altro quello che si pretende per sé. Se vuoi che io rispetti la tua religione, devi rispettare la mia. Se vuoi che io rispetti la tua vita, i tuoi valori, le tue abitudini, devi rispettare il mio mondo. Il rispetto non può che essere reciproco. E va praticato come un’etica pubblica riconosciuta da tutti.
Certamente le politiche di accoglienza vanno riviste. Non possiamo fare finta che il terrorismo internazionale non esista, o non sia pericoloso. Ma la risposta alla violenza non può consistere in altra violenza. Il terrorismo religioso, fatto di bombe umane e aggressioni improvvise, è un fenomeno complesso e nuovo che va affrontato con conoscenza e coraggio, unendosi per stabilire strategie comuni, sapendo che costerà soldi e sacrifici; ma se non vogliamo cascare nella loro provocazione, ovvero in una guerra mondiale che farebbe migliaia di morti, dobbiamo ragionare insieme, inventare nuove strategie, pensare in grande e a lunga scadenza, dando un esempio di maturità e di responsabilità.