Lo descrivono «sereno e tranquillo», come può esserlo il capo di un governo sorretto da partiti che si fanno la guerra tra loro, usando come armi le riforme che l’Europa ci chiede. Al disegno di legge sulla concorrenza sono legati i miliardi del Pnrr e Mario Draghi, davanti ai centristi Romani, Quagliariello, Toti e Marin saliti ieri pomeriggio a Palazzo Chigi, lo ha detto senza ricamarci sopra: «Le raccomandazioni della Commissione Ue al nostro Paese riguardano provvedimenti fondamentali, che non possiamo fare a meno di realizzare». Per il premier ci sono «principi non negoziabili», sui quali non intende arrivare a compromessi con i partiti: «Il problema non è mio. Queste cose si devono fare, e basta». E se non si fanno nei tempi stabiliti, ecco la conclusione a cui porta il ragionamento di Draghi, l’esecutivo non ha più ragione di esistere: «O le forze politiche si mettono d’accordo e fanno approvare in Parlamento la concorrenza e la delega fiscale che contiene la riforma del catasto, o non c’è più il governo»
Di fronte al pressing incrociato dei partiti e al rischio che un incidente parlamentare inneschi la crisi e porti al voto anticipato, Draghi non si muove di un millimetro. Per lui la bussola sono «le cose da fare» e non certo i vessilli elettorali delle forze politiche. Con la guerra alle porte dell’Europa, le tante crisi aperte dal conflitto in Ucraina e la frenata dell’economia, l’Italia non può permettersi un rallentamento del Pnrr. Per Palazzo Chigi il piano europeo è l’antidoto al rischio di recessione, attuarlo è uno strumento salva-vita. Draghi si è impegnato con l’Europa e con gli italiani e vuole essere coerente. Quale sia l’umore a Palazzo Chigi lo ha fatto capire il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli: «Il governo avverte la forte responsabilità di evitare passi falsi, battute d’arresto, distrazioni».
I collaboratori del premier smentiscono ritardi, perché i 45 obiettivi del primo semestre del Pnrr sono stati raggiunti. Se c’è preoccupazione è perché il ddl sulla concorrenza, che riguarda il secondo semestre del 2022, è impantanato da mesi sul destino dei balneari. La raccomandazione della Commissione Ue è severa. Per le spiagge «l’uso delle concessioni pubbliche non è stato ottimale», il rinnovo automatico per lunghi periodi e con tassi al di sotto dei valori di mercato comporta «una significativa perdita di entrate» per le casse dello Stato. Dopo anni di rinvii il governo aveva deciso di introdurre gare aperte per le concessioni a partire dal 2024, ma Lega e Forza Italia hanno alzato un muro di «no» e fatto saltare l’accordo, che prevedeva entro metà marzo il voto degli emendamenti.
Settimane di riunioni e mediazioni con le segreterie dei partiti non hanno portato passi avanti, finché Draghi ha lanciato un (doppio) ultimatum. Prima il Consiglio dei ministri urgente in cui ha avvisato la squadra che, senza un accordo, porrà la questione di fiducia sul testo attuale, poi una lettera alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. La concorrenza, ecco l’accelerazione di Draghi, va votata entro il 31 maggio e per il premier la data non è casuale. La legge va approvata entro giugno al Senato ed entro luglio alla Camera, perché poi ci sono da scrivere i decreti attuativi e negli uffici della presidenza del Consiglio è forte il timore di non farcela, «anche se dovessimo lavorare tutto agosto senza ferie».
E siamo a oggi, con la commissione Industria alla ricerca di un accordo sugli indennizzi alle aziende che perderanno le concessioni e Lega e Forza Italia che alzano il prezzo. Toccherà alla riunione dei capigruppo di Palazzo Madama decidere la calendarizzazione del provvedimento. La destra non sembra avere fretta e lascia correre tra Palazzo Madama e Palazzo Chigi il sospetto che il vero obiettivo sia ottenere lo stralcio delle spiagge. «Non lo avranno mai», è l’altolà che Draghi va scandendo in queste ore. E Giovanni Toti, dopo l’incontro con il premier a Palazzo Chigi, prova a mediare: «Se Draghi metterà la fiducia noi la voteremo, nessuno farà cadere il governo sui balneari con la guerra in Ucraina. Ma un giorno in più o in meno non cambia le sorti del Paese».