20 Settembre 2024

Fonte: La Stampa

casabiancawashington

di Sarah Varetto

Il “Trumpismo” ha rotto gli schemi tradizionali della democrazia

Una campagna memorabile, e non in senso positivo, a prescindere da chi la spunterà come 45° Presidente.
Questa corsa alla Casa Bianca resterà nei libri di storia come un momento di discontinuità profonda nella politica americana (e non solo).
Nell’ultimo sondaggio del New York Times sull’umore degli elettori prima del voto, 8 su 10 si sono detti «disgustati». Chiunque vinca troverà un Paese diviso, un dibattito pubblico invelenito e un tasso di faziosità ben oltre il livello di guardia.
In una nazione che ha vissuto nella sua storia una guerra civile e tragici episodi di violenza politica (anche durante le campagne presidenziali) è esagerato sostenere che «nulla del genere si sia mai visto in passato». Ma questi mesi di inusuale confronto tra due candidati impopolari ci hanno costretti a rivedere alcune categorie dell’analisi politica e a inaugurarne di nuove.
Se gli scandali sessuali o l’ingerenza dell’Fbi sono in modi diversi dei déjà-vu, su altri fronti abbiamo assistito a uno spettacolo senza precedenti.
Il trumpismo, innanzitutto, non è una nuvola passeggera. Il personaggio ha tratti di unicità ed è forse irripetibile, ma il successo del suo messaggio ha cause più profonde del suo stravagante carisma personale. La segmentazione della società che alimenta il populismo, negli Usa come in Europa, pare fuori dal controllo dei partiti tradizionali, come dimostrano il «suicidio» repubblicano o l’improvvido hara-kiri politico di Cameron. Una sua vittoria equivarrebbe a una sorta di mutazione genetica del concetto stesso di democrazia (delle sue forme, dei meccanismi di formazione del consenso etc…). Ed è difficile dire, nel caso entrasse alla Casa Bianca, se a prevalere sarà l’enormità della carica o l’enormità del suo ego: potremmo dire che la figura del Trump presidente è assolutamente imprevedibile più per ragioni psicologiche che politiche.
Il «cyber warfare» è un altro inedito protagonista che ha fatto un ingresso trionfale nella campagna presidenziale e che purtroppo non uscirà più dalle cronache. Mail hackerate, attacchi sempre più massivi a infrastrutture informatiche, perfino il rischio di cyber-brogli. Che il colpevole sia a Mosca o che si voglia richiamare «l’influenza del complesso industrial-militare» paventata da Eisenhower, quel che è certo è che la guerra a colpi di codici e malware è ormai entrata a pieno titolo tra le minacce per l’ordinamento democratico e per i processi che gli danno forma (in primis, naturalmente, le elezioni).
Molti invitano a non sopravvalutare queste criticità perché vincerà senz’altro Hillary Clinton e questo spazzerà via le tossine che hanno avvelenato questa strana campagna. Sono due previsioni legittime ma insidiose.
Trattandosi del Paese che ha conosciuto il più colossale fiasco nella storia dei sondaggi (la vittoria di Roosevelt nel ’36) è bene mantenere ancora per qualche ora un po’ di prudenza.
E se davvero vincerà Hillary Clinton, non pensiamo che la mattina del 9 novembre tutto torni magicamente alla normalità. Le regole del gioco potrebbero essere cambiate in modo irreversibile.
Molto dipenderà dai nuovi equilibri al Congresso, ma certo non basterà «abbassare i toni» per ricomporre un clima in cui, per lo meno, le parti si riconoscano e non evochino l’impeachment in caso di sconfitta (un quarto degli elettori di Trump dichiara del resto di non essere disposto ad accettare la vittoria dei democratici).
Gli Stati Uniti usciranno dalle Presidenziali 2016 diversi da come ci sono entrati. Quanto diversi lo vedremo martedì notte.

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