22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Giovanni Pietruzzella

Si passa a una strategia complessiva di sviluppo che comporta un ripensamento delle politiche in tutti i settori dell’economia


La conferenza sul clima di Madrid si è chiusa con un rinvio, ma l’Unione europea va avanti con un piano che intende trasformare l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico in un’opportunità. Si chiama «European Green Deal» e, secondo la comunicazione presentata al Parlamento europeo dalla Commissione di Ursula von der Leyen, consiste in una strategia di crescita il cui scopo è trasformare l’Europa in una società giusta e prospera con un’economia competitiva basata sull’uso efficiente delle risorse naturali che nel 2050 dovrebbe raggiungere un obiettivo molto ambizioso: zero emissioni nette di gas a effetto serra. Questa strategia provocherà mutamenti maggiori di quelli che sono stati determinati dall’introduzione dell’euro. Perciò è necessaria una partecipazione consapevole del nostro Paese al processo che sta per partire.
In particolare, sin da subito, vanno segnalate alcune novità e affrontate le questioni più importanti. In primo luogo, c’è un mutamento di paradigma economico, che permette di riconciliare la crescita economica con la salvaguardia del pianeta. Il cambiamento si impernia su una «piattaforma tecnologica polifunzionale» – per usare l’espressione di Jeremy Rifkin – che consiste nella combinazione di nuove tecniche di produzione e di consumo dell’energia, un’infrastruttura di comunicazione basata su internet (in particolare, internet of things e intelligenza artificiale), nonché su innovative forme di mobilità, tutte convergenti verso l’uso efficiente e la salvaguardia delle risorse naturali, il consumo intelligente, il riuso, in vista dell’economia a zero emissioni. Si passa dalle politiche per il clima e l’energia a una strategia complessiva di sviluppo che dovrà comportare un ripensamento delle politiche in tutti i settori dell’economia, a cominciare dall’energia per riguardare poi l’industria, le infrastrutture, i trasporti, le costruzioni, il consumo, la tassazione, la ricerca, la concorrenza, l’agricoltura e il cibo. In secondo luogo, la Commissione si propone di impiegare tutti gli strumenti di cui dispone: fissazione di nuove regole, promozione dell’innovazione e della ricerca, sussidi e tassazione, trasformazione della Bei in una «banca per il clima», riordino dei fondi europei per destinare consistenti risorse alla nuova strategia e a compensare le regioni e i gruppi sociali che saranno svantaggiati dal cambiamento, in modo che «nessuno sia lasciato indietro». Secondo le stime attuali occorreranno circa 290 miliardi di euro l’anno. Ne potranno derivare uno stimolo alla crescita e nuove opportunità di lavoro, anche per i lavoratori meno qualificati. Infine, interventi così complessi non saranno imposti dall’alto, secondo quella logica «top-down» che spesso è stata rimproverata all’Unione e che è sinonimo di deficit democratico, ma saranno definiti attraverso il confronto con il pubblico e gli stakeholders, per dare vita a un «Patto europeo per il clima».
L’Economist ha subito colto il carattere generico del «Green deal», ma questa non è una debolezza perché si tratta di una mappa generale, i cui interventi saranno definiti in quel processo partecipativo di cui si è detto. Tra i tanti problemi da affrontare, alcuni sembrano prioritari per l’Italia. Le risorse europee non saranno sufficienti a assicurare gli investimenti pubblici necessari (per esempio, per migliorare le reti ferroviarie o per assicurare l’efficienza energetica) e pertanto occorrerà ricorrere ai bilanci degli Stati. Ma un Paese come l’Italia, per le condizioni della sua finanza pubblica in base alle regole dell’Unione economica e monetaria, ha pochi margini di manovra e quindi rischia di non poter cogliere le nuove opportunità. Per scongiurare tale evenienza potrebbe essere proposta una «Golden rule» per gli investimenti verdi, consentendo che essi siano finanziati in deficit, anche se si determina una deviazione dal cosiddetto obiettivo di bilancio di medio termine. Inoltre, la strategia europea comporterà un «prezzo del carbonio» per scoraggiare le emissioni climalteranti e questo prezzo si concretizzerà in tasse o in permessi negoziabili riferiti a un certo ammontare di emissioni (sistema che già esiste e che sarà esteso a nuovi settori). In tutto ciò c’è il rischio che siano penalizzati settori rilevanti dell’economia italiana, che siano meno competitive sui mercati globali le merci che dovranno incorporare il «prezzo del carbonio» e vengano favoriti i beni prodotti fuori dall’Unione senza sopportare il suddetto costo. Per neutralizzare tali rischi potrà pensarsi a rimborsare il prezzo del carbonio alle merci europee che sono esportate e a far pagare una «carbon tax» alle merci importate in relazione alla loro impronta di carbonio, ma la configurazione tecnica di tali misure non è facile. Una ragione in più per spingere la politica e l’economia italiana a prestare attenzione a quanto sta avvenendo nel cantiere della nuova Europa.

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