Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
La sconfitta di Trump non può significare un semplice azzeramento degli ultimi quattro anni. E noi non potremo delegare all’America, come in passato, difesa e sicurezza
Mentre sugli schermi televisivi scorrevano le immagini dell’assalto a Capitol Hill si sentiva spesso ripetere da chi le commentava che in quel momento si stava consumando una aggressione al «tempio» della democrazia. Retorica a parte, in quelle parole si coglieva, oltre allo smarrimento di fronte all’impensabile (assalti ai Parlamenti te li potevi aspettare in tanti luoghi del mondo tranne che negli Stati Uniti), anche la più o meno confusa consapevolezza di cosa sia davvero, quando si viene al dunque, la democrazia . La democrazia è, prima di tutto e soprattutto, un metodo per sostituire i governanti in carica senza violenza e senza spargimenti di sangue quando, in libere elezioni, una maggioranza di elettori (ma spesso si tratta solo della minoranza più forte) decide di cambiarli.
La democrazia «conta le teste anziché tagliarle». Ciò la distingue dagli altri regimi politici. Non sempre riesce a evitare la violenza. Come testimonia la storia di tutte le democrazie. A cominciare da quella degli Stati Uniti con i suoi tanti episodi di violenza politica. Tuttavia, nonostante Capitol Hill, nonostante i tentativi di Trump di avvelenare tutti i pozzi possibili prima della inevitabile ritirata, bisogna dire che le notizie oggi circolanti sulla crisi della democrazia americana sono «grossolanamente esagerate».
Il presidente Trump non ha soltanto spinto all’azione, col suo discorso sulla vittoria rubata, i rivoltosi di Capitol Hill. Ha anche fatto ricorso a ogni mezzo legale disponibile per ribaltare il risultato elettorale. E non ha trovato un governatore o un giudice disposti ad assecondare il suo disegno. Tante democrazie in giro per il mondo sono crollate perché il capo di governo in carica ha rifiutato di dimettersi dopo avere perso le elezioni. Ma le istituzioni americane sono troppo solide per consentire al Presidente degli Stati Uniti ciò che, in altri luoghi, istituzioni assai più deboli permettono a certi capi di governo.
Si noti che Trump, anche se ha perso la Casa Bianca, ha tuttavia mostrato di conservare una grande forza elettorale, di essere ancora un formidabile trascinatore. Come hanno potuto constatare i democratici i quali hanno conservato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti ma perdendo voti e seggi.
Si sono molte volte elencate le ragioni che rendono così turbolenta oggi la politica americana: un marcato declino della fiducia del pubblico nei confronti dei governanti, una lunga stagione di polarizzazione politica, la maggiore forza e la maggiore visibilità di minoranze estremiste di varie tendenze. È ciò che in definitiva permise la vittoria di uno come Trump quattro anni fa e che rende possibile l’elezione, fra le fila dei democratici, di candidati che, usando parametri europei, possiamo classificare come estremisti di sinistra.
E tuttavia questo non ha impedito la vittoria di un centrista come Joe Biden. Né impedirà, plausibilmente, a quei parlamentari repubblicani che in questi anni hanno dovuto subire Trump, fare buon viso a cattivo gioco, di smarcarsi, trovando pragmaticamente, ogni volta che sarà per loro conveniente, punti di incontro con l’Amministrazione democratica.
Ma, si dice, l’America è un «Paese diviso», ove i competitori si trattano da nemici anziché da avversari (perché, in Italia no?). Ogni tanto si ha la sensazione che qualcuno deprechi non solo le violenze ma anche le divisioni in quanto tali. Come se fosse possibile o auspicabile una democrazia senza divisioni (più o meno profonde). Il problema non sono le divisioni ma la capacità delle istituzioni di tenerle sotto controllo e di impedire il più possibile ai conflitti — inevitabili e necessari — di degenerare al punto di minacciare l’ordine sociale. Nonostante il pur gravissimo episodio di Capitol Hill o le violenze urbane che hanno scosso l’America negli ultimi mesi, non pare proprio che le istituzioni della democrazia statunitense abbiano perduto quella capacità.
Se sono eccessivi gli allarmi sul futuro della democrazia americana ciò non significa che per noi europei non ci siano forti ragioni di preoccupazione. Il più grosso rischio è che Biden, nonostante tutta la sua esperienza e la sua volontà, più volte manifestata, di riannodare i legami con l’Europa, subisca la pressione di forze che spingono in direzione contraria. Si ricordi che la sinistra del Partito democratico è interessata solo a radicali riforme sociali interne e le sue posizioni internazionali (isolazioniste e protezioniste), se prevalessero, avrebbero per noi effetti altrettanto deleteri di quelli provocati dall’Amministrazione Trump.
Ha ragione chi pensa che la sconfitta di Trump non possa significare un puro e semplice ritorno al passato. Anche se certamente le relazioni fra America e Europa miglioreranno, Biden dovrà tenere conto del fatto che il pubblico americano non sopporta più di pagare prezzi troppo alti per alimentare l’egemonia internazionale degli Stati Uniti. La coperta sarà dunque molto più corta di un tempo. Ciò significa che l’inevitabile investimento americano di attenzione e risorse nella competizione con la Cina sarà compensato da una minore disponibilità ad assicurare, con la stessa forza e la stessa credibilità del passato, la sicurezza europea. Ma poiché la sicurezza è essenziale per garantire non solo l’incolumità fisica dei cittadini ma anche la funzionalità e la stabilità delle istituzioni democratiche, in teoria spetterebbe a noi europei occuparcene negli anni a venire. Più facile a dirsi che a farsi. Si sa quanto siano recalcitranti tanti europei, forse la maggioranza, a spostare sulla difesa e sulla sicurezza risorse impiegabili, e fin qui impiegate, per altri scopi. Anziché del destino della democrazia americana (che, nonostante tutto, non sembra correre grandi rischi) dovremmo cominciare a preoccuparci del futuro delle nostre democrazie.