L’Occidente glissa sulla no-fly zone, non invia soldati ma mezzi che faranno morti. Vogliamo combattere senza dirlo: un pendio che può portare al conflitto aperto
Le parole le pronunciamo talvolta controvoglia. Le usiamo per separarci da noi stessi, dalle conseguenze delle nostre azioni. Significano prudenza. E mancanza. Ma di fronte a quello che accade in questi giorni nelle pianure d’Ucraina bisogna pronunciarle perché non si può fare altrimenti. Eccole: l’Occidente, la Nato, l’Europa e l’Italia sono già in guerra con la Russia che ha invaso l’Ucraina e posto mano alla sua distruzione. Perché inviare armi a chi combatte è in ogni significato possibile bellico, giuridico, morale entrare in combattimento, ovvero partecipare e uccidere.
Le armi che abbiamo fornito e ora in maggiore quantità e efficacia forniremo all’esercito di Kiev non serviranno come semplice arnese di deterrenza, per convincere un nemico, ancora incerto, che pagherà un prezzo salato se attacca. Questa è la storia di ieri, seppellita sotto le bombe dell’incallito mestatore di Mosca. Adesso abbiamo liberato il terribile genio dalla lampada.
Non le faranno sfilare nelle parate della festa dell’indipendenza per esibirle come una riserva, una garanzia. Poiché Putin ha già attaccato con scelta brutale e colpevole servono per uccidere i russi. Quelle armi nostre, uscite dai nostri arsenali, vengono usate, sventrano, annientano, abbattono, eliminano il maggior numero possibile di combattenti nemici in modo più moderno tecnologico, efficace.
Gli uomini che maneggiano quelle armi sofisticate, letalissime come viene precisato con scrupolo, non sarebbero in grado di farlo se non fossero stati addestrati nei mesi e negli anni scorsi da istruttori dell’Alleanza atlantica. Noi dunque non minacciamo, deprechiamo, confischiamo conti bancari o ville di lusso. Noi contribuiamo ai conti della morte, quindi siamo nella guerra. Mosca lo ha compreso benissimo, alzando il tono della sua minaccia di ritorsione nei confronti di quelli che chiama «attori esterni», ovvero gli alleati ora sul campo di Kiev.
Nelle dichiarazioni dei leader occidentali la parola, guerra, con ipocrisia ha disertato il senso che ricopre. Fornire cannoni e anticarro è presentato come una appendice un po’ più forte delle sanzioni economiche, quasi fosse un gesto necessario e innocuo, asettico per chi lo compie quando qualcuno viene aggredito e i perseguitati non hanno i mezzi sufficienti per difendersi. Questo è vero per le sanzioni. Ma non per la fornitura di armamenti quando già si combatte.
Gli occidentali conoscono benissimo la differenza: nel 2011 i perseguitati erano i siriani massacrati da Bashar Assad, perfino i gas usava per annientarli. Chiesero armi: per difendersi meglio. Non assomigliavano forse agli ucraini? Obama e l’occidente non volevano far la guerra per loro, i siriani non erano importanti, erano lontani. E infatti distribuimmo loro sorrisi, incoraggiamenti, un po’ di pietà, senza affannarci troppo. Ma neppure un fucile. Perché voleva dire entrare in guerra con Bashar e i suoi alleati. Appunto.
Le parole bisogna rispettarle soprattutto quando le parole sono guerra, invasione, nemico, distruzione. Non sono ombre da evocare e che si può far sparire a comando. Ognuna ha la sua terribile ragion d’essere, ognuna contiene un terribile segreto di conseguenze. Bisogna liberarle per capire cosa sta accadendo e poi tenerle salde se si è dalla parte della giustizia, se servono a difendere vittime e a punire i colpevoli. Dietro ogni parola ci sono altre parole, tutte intangibili e ancora invisibili ma cariche di attesa, di paura e di speranza anche per altri. La parola guerra è stupore e orrore. Talvolta è necessità. Ma bisogna dirlo.
Pudicamente ci rifugiamo dietro la frase: ma noi non inviamo combattenti sul terreno, non ci saranno soldati americani o tedeschi o italiani nelle trincee di Kiev o di Karchov. E con questo concludiamo un allegro armistizio con ogni sorta di interrogativo. Biden ha annunciato, come se fosse una generosa concessione, che non ordinerà e cercherà di mettere in pratica il divieto di sorvolo sul territorio ucraino per bloccare i bombardamenti russi. Come gli americani hanno puntualmente applicato in tutti luoghi in cui si sono impegnati sul terreno dei conflitti dall’Iraq alla libia. Ma non perché vuole tenersi fuori dalla guerra: questa volta di fronte non c’è un nemico che al massimo può schierare vecchi e innocui catenacci. La «no fly zone» equivarrebbe a affrontare duelli incerti con l’aviazione russa, certo non facile da tenere a terra senza subire perdite. Una scelta di prudenza militare. Meglio tenere in prima linea gli ucraini.
Il guaio è che la guerra combattuta senza dirlo, come tutte le furbizie, regge per un tempo limitato. Saranno gli ucraini stessi a farla crollare. Quando la potenza russa si abbatterà su di loro con tutta la violenza possibile, finora ne hanno provato solo sanguinose premesse, le armi «in leasing» non basteranno più e ci chiederanno di tener fede all’impegno che abbiamo sottoscritto inviandole: ci chiederanno di intervenire, di prenderci direttamente per il bavero con uomini in carne e ossa e non con idee pure.
Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi.