Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Con la sconfitta della populista Le Pen, più ancora che con la vittoria del moderato Macron, l’Europa ha riconquistato ieri in terra di Francia una legittimità storica e politica che cominciava a mancarle. Non potevano bastare i risicati successi elettorali in Austria e in Olanda a garantire la sopravvivenza di una Unione in crisi esistenziale, né pareva saggio affidarsi allo spirito unitario che ha sin qui caratterizzato il difficile divorzio tra Bruxelles e Londra. Ma la Francia sì, per questa Europa in sofferenza la Francia da sola poteva decidere in modo irreversibile tra collasso e primi sintomi di guarigione. Perché con una populista di estrema destra all’Eliseo la Germania avrebbe scelto per sé e per pochi altri una via diversa. Perché le istituzioni comuni non avrebbero retto. Perché l’intero progetto comunitario sarebbe stato travolto dalla disgregazione nazionalista. Lo sapevano i francesi, che queste erano elezioni strategiche in grado di coinvolgere interessi globali. E lo sapeva il resto del mondo, a cominciare dal trasversale fronte anti-europeo che da est e da ovest ha in vari modi tifato Le Pen. Ma alla fine la vera posta in gioco, l’Europa, ha ritrovato le dimensioni locali e nazionali di ogni consultazione democratica, ha dovuto misurarsi con le ansie e le frustrazioni di un popolo che in buona parte si sentiva assediato dall’immigrazione, emarginato dalla mondializzazione, orfano di quelle che erano un tempo le straordinarie protezioni garantite dallo Stato francese. Un popolo che aveva voglia di protestare e lo ha fatto, a destra con Marine Le Pen e a sinistra con Jean-Luc Mélenchon, ma che era anche tenacemente consapevole della sua storia e dei suoi valori.
E sono proprio la Storia e i valori che hanno vinto, smentendo i profeti della grande mutazione francese. L’ultima trincea della République anche questa volta non è caduta. L’implosione del sistema partitico ha sì avuto luogo, ma non a vantaggio dei populisti di destra o di sinistra che la presentavano come una propria conquista. Il messaggio conservatore e perfino retrogrado di Marine Le Pen è parso una minaccia inaccettabile a quella identità nazionale francese sul cui declino si voleva far leva. E tutto questo senza che Emmanuel Macron, risultato alla fine il vero «rivoluzionario», avesse il tempo o le capacità per convincere sulle virtù delle sue promesse. Quale maggioranza parlamentare uscirà dalle elezioni legislative di giugno? Riuscirà il nuovo presidente a riunificare una Francia divisa? Colpirà ancora quel terrorismo che gioca in Francia le sue carte principali? Le ricette economiche liberiste risulteranno efficaci nel tempio dello statalismo? Molte incognite attendono ancora risposta. Ma il fatto che ieri l’Eliseo non sia stato espugnato rappresenta per l’Europa, e per la Francia che all’Europa non vuole voltare le spalle, un dato certo dal quale ora si intende ripartire.
Semmai, il pericolo per l’Europa è un eccesso di compiacimento che fa già capolino. Certo, le elezioni tedesche di settembre non preoccupano perché il verdetto non sfuggirà all’alternativa Merkel — Schultz. E a quelle italiane si preferisce non pensare, tale è la confusione che Roma proietta nelle altre capitali europee. Ma infilare la testa nella sabbia e pensare che Parigi abbia sistemato tutto sarebbe, per l’Europa, l’ennesimo tentativo di suicidio: la Ue ha guadagnato tempo, ha ottenuto una prova d’appello, non ha cancellato le sue inadeguatezze. Occorre studiare la lezione di metodo che ci ha dato Macron, orgoglioso difensore dell’Europa nel momento stesso in cui si propone di migliorarla. Occorre mettere in cantiere politiche comuni per gli Stati che entreranno nell’avanguardia delle «diverse velocità», per la difesa e la sicurezza, per il contrasto dell’immigrazione illegale, per il completamento dell’unione economica e monetaria, nell’attenzione particolare che va dedicata a quei gruppi sociali che hanno perso potere d’acquisto negli ultimi anni. Questi e altri sforzi sono urgenti se si vuole combattere davvero il malessere europeo che è all’origine del populismo e se non si vuole sprecare l’occasione di riscossa che l’elettorato francese ha garantito a tutta la Ue.
Ma si tratta di un traguardo realistico? Sì, se dopo le elezioni di ieri e quelle di giugno rinascerà quell’asse franco-tedesco che abbiamo visto tristemente deperire durante la presidenza Hollande. Sì, se la Germania post-elezioni potrà più facilmente capire che nessuna ripresa socio-economica, a cominciare da quella promessa da Macron, potrà aver luogo senza maggiori (e monitorate) elasticità finanziarie. E sì, se l’Italia riuscirà a capire la nuova situazione e ad agire di conseguenza. Tra l’avvento delle diverse velocità e il rilancio dell’asse franco-tedesco, nell’Europa prossima ventura rischiamo una doppia emarginazione: quella dei conti pubblici perché all’elasticità abbiamo già fatto ricorso, e quella dell’ingovernabilità perché i partiti ascoltano poco e male i richiami del presidente Mattarella sulla legge elettorale. La Francia, per noi, suona un campanello. D’allarme.