30 Gennaio 2025

La scelta di annullare l’informativa di Piantedosi e Nordio in Parlamento è un’occasione persa per cercare di fare chiarezza

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio erano chiamati oggi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni sul caso di Najeem Osama Almasri, il capo delle guardie libiche arrestato a Torino e riportato due giorni dopo con un volo di Stato a Tripoli. La scelta di annullare l’informativa è un’occasione persa. Perché poteva trasformarsi nel momento per fare finalmente chiarezza su quanto avvenuto tra il 19 gennaio, giorno della cattura, e il 21, giorno del rilascio. E così provare a svelenire un clima che l’avviso inviato alla presidente del Consiglio Meloni, al sottosegretario Mantovano e agli stessi Piantedosi e Nordio ha ulteriormente infiammato.
Di fronte a una denuncia, non manifestamente infondata, la Procura di Roma era obbligata a trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri senza svolgere alcun accertamento. Ma appare chiaro che questa indagine non approderà a nulla perché — anche ipotizzando che il collegio ritenga fondate le accuse — sembra impossibile che il Parlamento conceda l’autorizzazione a procedere. Ma anche perché il governo — di fronte al rischio di un processo — potrebbe invocare il segreto di Stato.
Ci sono molti interrogativi aperti in questa storia. Il primo riguarda il lavoro della Corte dell’Aia che ha atteso tre mesi prima di ordinare l’arresto di Almasri e l’ha fatto poi in tutta fretta quando stava arrivando in Italia, sebbene da due settimane il capo delle guardie libiche fosse in giro in Europa, tra Gran Bretagna, Belgio e Germania. Si tratta di un torturatore, come mai si è aspettato tanto?
Il secondo interrogativo riguarda invece il governo. Appena il libico è finito in manette è stata avviata la procedura per rispedirlo a Tripoli. Il Guardasigilli Nordio non ha risposto ai giudici di Roma e si è deciso di caricarlo su un aereo dei servizi segreti per riportarlo in patria dove è stato accolto in trionfo in favore di telecamera. Tanta fretta è spiegabile soltanto con la necessità di rispondere alle pressioni dei libici. Ma allora sarebbe stato meglio ammetterlo, informare il Parlamento che esisteva una ragione di Stato, proprio come accaduto nel caso del rilascio dell’iraniano Abedini.
Sono passaggi semplici, verrebbe da dire scontati, in un Paese normale. E invece dobbiamo ancora una volta constatare che questa eterna guerra tra politica e magistratura distorce ogni fatto, rende tutto complicato, alimenta una fibrillazione che ha ormai raggiunto un livello inaccettabile.
Sabato scorso, alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, il sottosegretario Mantovano ha rivolto un appello alle toghe invitandole a «sedersi ai tavoli del confronto, e lì a manifestare la loro opposizione, con toni anche aspri, ma anche a formulare proposte o modifiche, che talora vengono accolte». Proprio ciò che l’Anm ha chiesto più volte, senza però trovare interlocutori che avessero voglia di ascoltare davvero, fino a decidere di abbandonare — in tutta Italia — le aule quando parlavano i rappresentanti del governo. Adesso bisogna dare seguito alle buone intenzioni del sottosegretario e delle toghe che dicono di essere sempre disposte al dialogo. Il conflitto non fa bene a nessuno e certamente disorienta i cittadini. Il momento in cui ognuno riprenda il proprio ruolo nel rispetto delle istituzioni, è arrivato. Bisogna confrontarsi e trovare soluzioni. Se questo non avverrà, le conseguenze potrebbero essere gravi e imprevedibili, proprio come già accaduto in passato.

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