Fonte: Corriere della Sera
di Maurizio Ferrera
Se la disoccupazione giovanile è così alta in Italia non dobbiamo prendercela solo con la crisi. Parte di questo drammatico problema risiede nel divario fra le competenze maturate a scuola e quelle richieste dal sistema produttivo. Secondo alcune stime, se non ci fosse questo divario la disoccupazione fra i 15 e i 29 anni potrebbe ridursi dal 28% al 16%. Una cifra impressionante.
Il Nord, non si trovano laureati in ingegneria e altre discipline scientifiche. Al Sud, mancano diplomati con buona formazione da inserire nel turismo, nei servizi culturali, sanitari e sociali. Titolo di studio a parte, quali sono le maggiori carenze lamentate dalle imprese? Una recente ricerca della Confindustria di Bergamo (la seconda provincia industriale d’Europa, dopo Brescia) fornisce interessanti indicazioni. I neo-assunti sono scarsi in matematica di base, non parlano bene l’inglese né altre lingue straniere. Anche l’informatica e l’italiano scritto lasciano a desiderare. Le carenze più gravi riguardano però la capacità logica, l’attitudine alla leadership, la creatività. Sono quelle “meta-competenze” che rendono capaci di attivare conoscenze e abilità più specifiche per affrontare problemi complessi. E che incentivano a mantenere flessibilità di pensiero e curiosità ad ampio spettro.
Come si formano tali meta-competenze? Non c’è una ricetta prestabilita. Molti giovani le maturano spontaneamente; alcuni insegnanti sono capaci di stimolarle. I nostri istituti secondari producono talenti apprezzati in tutto il mondo. Ce ne saranno sicuramente molti anche fra i quattrocentocinquantamila maturandi che in questi giorni stanno sostenendo gli esami di stato. Non si può tuttavia contare solo sulla spontaneità. Le meta-competenze possono e devono essere deliberatamente coltivate, tramite approcci e pratiche educative già ben sperimentate in altri paesi. Secondo le ricerche della Fondazione Agnelli, nelle scuole italiane prevale ancora la didattica ex cathedra incentrata sul programma ministeriale, c’è poca apertura verso i metodi che gli esperti chiamano “euristici” perché volti a consolidare abilità trasversali e, appunto, meta-competenze.
L’anello più debole è la scuola media. La divisione fra licei, istituti tecnici e professionali incentiva poi una differenziazione per materie, una concentrazione eccessiva sui contenuti a scapito delle abilità. L’inarrestabile attrazione degli studenti verso i percorsi liceali sta poi svalutando, anche simbolicamente, i saperi tecnici. Perché non istituire un liceo “tecnologico”? Oggi esiste, all’interno del liceo scientifico, un indirizzo di scienze applicate, scelto da circa il 7% degli studenti: una percentuale simile a quella di chi opta per i licei artistici, sportivi e musicali. Un’altra buona idea sarebbe il potenziamento dei cosiddetti cicli brevi (due anni) dell’istruzione terziaria. In molti paesi, fra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Austria, la Spagna, la Danimarca, questi percorsi attraggono fra il 10 e il 20% dei diplomati. Da noi sono stati creati gli Istituti Tecnici Superiori, intesi come “scuole ad alta specializzazione tecnologica”. Intento buono, realizzazione molto deludente: solo 93 istituti, con meno di ottomila frequentanti (in Sicilia 360, in Campania 180).
Ai nostri studenti manca infine il sostegno di adeguati servizi di orientamento. Dopo la maturità, il percorso universitario è scelto in base ad interessi personali, prevalentemente vicino a casa e famiglia. Le prospettive occupazionali e di carriera si situano agli ultimi posti fra i criteri di selezione. Se un giovane prova una profonda vocazione intellettuale per una dato campo del sapere, è senz’altro giusto che l’assecondi. Ma tutte le scelte hanno implicazioni pratiche, di cui bisogna essere ben consapevoli. Come ammonisce Seneca nel brano proposto ieri per la seconda prova del liceo classico, persino la filosofia “non risiede nelle parole, ma nei fatti”.