Fonte: La Repubblica
di Alberto D’Argento
Il presidente francese, al suo primo Consiglio Ue, anticipa l’annuncio di Tusk e Juncker in conferenza stampa. Leader europei d’accordo anche su una maggiore cooperazione per il contrasto dell’estremismo online e dell’azione dei foreign fighter europei. Accolta la proposta della Commissione per la creazione di un fondo per la difesa comune
“Un passo storico”, lo definiscono il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il capo dell’Eliseo, Emmanuel Macron, al suo esordio con i ventisette colleghi europei a Bruxelles. E in effetti il via libera alla difesa comune europea firmato all’unanimità dai capi di Stato e di governo dell’Unione è un segnale politico forte dopo la Brexit e l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Un premio al lavoro portato avanti in questi mesi dall’Alto rappresentante Federica Mogherini. Dal Consiglio europeo, anche le rassicurazioni della premier britannica Theresa May quando il negoziato sulla Brexit è appena iniziato: “I cittadini dell’Unione residenti nel Regno Unito potranno restare”.
Di fatto viene lanciata la cooperazione strutturata permanente in campo militare grazie alla quale i partner Ue, o alcuni di loro, possono unire le forze in caso di necessità (sia per progetti economici che per missioni sul campo). Ci saranno i battle groups europei, battaglioni misti con la divisa verde e lo stemma blu dell’Unione, per la reazione rapida e il dispiegamento di truppe in teatri di crisi esterni all’Unione. Più una serie di progetti misti: Italia e Germania, ad esempio, hanno già proposto un centro per il coordinamento medico unico per l’assistenza nelle zone di guerra e l’addestramento congiunto degli ufficiali europei.
Inoltre c’è il semaforo verde al Fondo per la difesa Ue inizialmente da 90 milioni di euro per la ricerca congiunta tra governi in campo militare fino al 2019 per poi passare a 500 milioni l’anno a partire dal 2020. Per lo sviluppo e acquisto di armi sono invece previsti 500 milioni Ue per il biennio 2019-2020 e un miliardo l’anno a partire dal 2021. Coinvolgendo l’industria privata gli investimenti nella difesa comune dovrebbero arrivare a 5 miliardi l’anno dal 2020.
Un passo politico fondamentale per rilanciare l’Europa – pur essendo previsto che gruppi di governi possano andare avanti, al momento tutti aspirano a partecipare al progetto – dopo i mesi in cui si è temuto che i populisti potessero rovesciare l’Unione. Ma soprattutto per dimostrare che l’Europa sa ripensare il suo futuro e rilanciare l’integrazione anche dopo la Brexit.
Non bisogna dimenticare che quella che arriva da Bruxelles è anche una risposta ai dubbi di Donald Trump sulla Nato, per dimostrare che l’Unione è in grado di avere una propria autonomia militare anche se il progetto ha una prospettiva di rafforzamento delle capacità europee all’interno dell’Alleanza atlantica. Insomma, non vuole esserle concorrenziale. L’urgenza di far vedere che l’Unione va avanti era tanto sentita che i leader hanno accelerato, lanciando la difesa unica subito e non a dicembre, come inizialmente previsto.
Un progetto nel quale per forza di cose la Francia avrà un ruolo leader: dopo la Brexit, Parigi è l’unica capitale Ue ad avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza Onu e un arsenale nucleare.
I Ventisette hanno anche trovato l’accordo per la lotta ai foreign fighter, con i leader che si impegnano a varare una serie di politiche e a prendere misure legali contro i combattenti di ritorno e contro la radicalizzazione dei giovani che vivono in Europa. “Vogliamo concludere quest’anno i lavori sul nuovo sistema di condivisione delle informazioni alle frontiere”, ha spiegato Tusk, “siamo determinati a proteggere i nostri cittadini”.
Infine l’idea di chiedere all’industria Internet di sviluppare la tecnologia e gli strumenti necessari a rimuovere automaticamente i contenuti che inneggiano al terrorismo e per contrastare i sistemi di comunicazione dei terroristi, come le chat che operano sul deep Web, pur nel rispetto della privacy dei cittadini europei.
Come si diceva all’inizio, gli oltre 3 milioni di cittadini originari dei Paesi membri dell’Unione che vivono nel Regno Unito potranno restarvi godendo dei loro diritti anche dopo la Brexit. E’ l’impegno assunto da Theresa May, come spiega una fonte governativa britannica. La premier, però, ha respinto la richiesta di Bruxelles che vorrebbe competente per i diritti di quei cittadini la Corte di Giustizia europea. La premier ha chiarito che gli europei saranno soggetti alla legge Ue fino a che il Regno Unito non sarà uscito. Dopo, per May, “solo i nostri rispettabilissimi tribunali” potranno risolvere le questioni che riguardano questi residenti Ue nel Regno Unito.
Altri dettagli della proposta britannica che, come annunciato dal negoziatore David Davis, sarà pubblicata lunedì e costituirà la base di discussione per entrare nel vivo della trattativa al prossimo round del negoziato, il 17 luglio. Tutti i cittadini europei residenti da almeno cinque anni (ad una data che sarà specificata in seguito e non anteriore ai negoziati Brexit) verrà data la residenza con pieni diritti. Avranno sanità, istruzione, benefit e pensioni come se fossero inglesi. Anche a chi è arrivato nel Regno Unito prima della “data limite” (non ancora specificata), ma privo dei cinque anni da residente, verrà data la possibilità di restare fino al raggiungimento dei cinque anni per poi chiedere poi il permesso di soggiorno.
Ma, ha avvertito May, la reciprocità è vitale: la sua proposta sarà valida solo se gli stessi diritti saranno riconosciuti ai britannici residenti nell’Ue.
Al Consiglio Ue si è parlato anche della crisi Ucraina e delle sanzioni alla Russia. Che saranno estese per altri sei mesi, era scontato e tutti i leader si sono detti d’accordo dopo la valutazione della situazione da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron. Che hanno ribadito come Mosca continui a non attuare gli accordi di Minsk, sul cessate il fuoco e il ritiro delle armi pesanti dall’Ucraina orientale, nel conflitto fra il governo di Kiev e i separatisti appoggiati dai russi. Da fonti di Palazzo Chigi si apprende che il confronto, su richiesta italiana di alcuni mesi fa, ha riguardato anche il principio che le sanzioni non possono essere automatiche e perenni, ma che ci vuole un dibattito approfondito e nel merito per il rinnovo delle misure. Impegno finale a far precedere anche in futuro eventuali rinnovi delle sanzioni da una valutazione politica della situazione.