19 Settembre 2024
giuseppe conte 1

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L’ex premier e presidente del Movimento 5 Stelle puntava alla guida dell’opposizione. Ma l’arrivo di Elly Schlein ha ribaltato lo schema

«Diciamo che al momento abbiamo comunque la guerra come tema nostro», dicono a denti stretti e sottovoce nel giro dei pochissimi parlamentari ammessi al confronto con Giuseppe Conte, ammettendo implicitamente come uno via l’altro tutti gli altri giganteschi dossier un tempo appannaggio del solo Movimento Cinque Stelle siano scivolati per inerzia — «e speriamo solo momentaneamente» — sulla scrivania degli addetti alla comunicazione di Elly Schlein. Già, perché col Pd ancoratosi più a sinistra dopo le primarie di febbraio, che hanno promosso alla segreteria l’outsider rispetto al favorito Stefano Bonaccini, il grosso dell’opposizione lo maneggiano al Nazareno: dalla disfida sul Pnrr alla giustizia, dalla voce grossa contro le riforme sognate dal governo al cantiere aperto della Rai (il rappresentante in cda dei M5S s’è astenuto nella votazione sul nuovo corso griffato Roberto Sergio, quella del Pd ha votato contro), passando persino per l’ambiente, dove per vanificare il gioco di prestigio di Conte sul termovalorizzatore di Roma è bastata una mezza alzata di spalle della segretaria («Era una decisione già presa in precedenza»).
Resta il tema della guerra, anzi del «no alla guerra», come elemento di rottura. Depauperato certo dei presagi sulle ricadute in casa nostra, che alla fine si sono rivelati molto meno oscuri del previso, con quel bouquet di maledizioni fatte in casa fermatesi sull’uscio di stanze che non hanno dovuto abbassare più di tanto il riscaldamento o l’aria condizionata; ma «arricchito», si fa per dire, di una compagnia di giro «pacifista» che comunque non porta acqua al mulino elettorale dei Cinque Stelle, come ha dimostrato tra l’altro il bottino assai scarno delle ultime elezioni amministrative.
Doveva iniziare in un altro modo, nella testa di Giuseppe Conte, questo 2023. E dire che le condizioni per lo scacco matto al Pd, nello schemino tratteggiato a penna dall’ex presidente del Consiglio nel momento in cui premeva (con Salvini e Berlusconi) il tasto off sull’esperienza di Mario Draghi a Palazzo Chigi, sembravano esserci tutte. Negare qualsiasi alleanza, fare opposizione dura e pura, sperare nel Pd più spostato al centro e quindi pregustare il jackpot del sorpasso definitivo sul Nazareno prima nei sondaggi e poi alle Europee del 2024. Quindi dopo, solo dopo, costringere il Pd a una resa senza condizioni in vista delle Politiche, con un remake tutto italiano del film francese sull’ascesa della sinistra di Mélenchon e il tracollo dei socialisti.
A conti fatti, la storia sta dicendo altro. Dal «fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste» — come disse di Conte Nicola Zingaretti in una frase rimasta appicciata alle scarpe dell’allora segretario del Pd come il più ostico dei chewing-gum calpestati per sbaglio — sembrano scomparsi il fortissimo, le forze, il progressismo; ed è rimasto, al momento, qualcosa di meno di un punto fermo e di più di un puntino. E ci sono effetti collaterali di questa parabola discendente che rasentano il paradossale, come per esempio nel wrestling a colpi di oratoria contro Matteo Renzi: l’uno dice dell’altro che potrebbe fare la stampella del governo Meloni in caso di crisi del centrodestra, entrambi rimangono indiziati senza ulteriori prove a carico, col Pd della Schlein che incassa quasi da monopolista i dividendi nei sondaggi dell’attività di opposizione.
Certo, come ebbe a riconoscere in privato anche Silvio Berlusconi due anni fa, «Conte sa essere camaleontico, è bravo e non bisogna sottovalutarlo». Aveva abolito la povertà e poi l’ha riscoperta, era stato fatto fuori da Grillo e ha finito per farlo fuori lui, era finito sotto il tacco di Di Maio che poi s’è scisso, sotto quello di Di Battista che non è mai rientrato, sotto quello di Draghi che poi è andato via, sperimentando adesso quanto sia dura la vita di chi ha avversari interni e nemici esterni ma impossibile quella di chi non ha né gli uni né gli altri; ha messo, tolto e rimesso e ritolto la pochette ma la maledizione dell’armocromista della politica ha finito per metterlo all’angolo, almeno per adesso. «Diciamo che ci rimane il tema della guerra», certo. Il resto, prima che trovarlo, bisogna cercarlo. Ed è molto facile solo a dirsi, per ora.

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