Fonte: Corriere della Sera
di Aldo Cazzullo
Il pericolo scampato in Olanda e Francia non deve trarre in inganno: in Spagna e soprattutto in Italia le forze antisistema possono trovare la loro rivincita
La vittoria di Macron è un sospiro di sollievo più che un inno alla gioia. Continuare come se nulla fosse, pensare che la nottata sia finita, dare per sconfitto il populismo sarebbe un grande errore; come si vedrà tra un mese alle elezioni legislative, quando Marine Le Pen potrebbe portare un centinaio di deputati all’Assemblea nazionale (oggi ne ha due), cui se ne aggiungeranno molti altri di estrema sinistra. Se il presidente imporrà la svolta liberale promessa, lo attende una fortissima opposizione sociale, anche violenta, che si è manifestata in embrione con un primo corteo parigino sul sempiterno percorso République-Nation. E lo scenario non riguarda solo la Francia, ma l’Europa; a cominciare dall’Italia. Macron al primo turno è stato votato dai riformisti e dai moderati. Al secondo ha potuto contare sui francesi che non volevano all’Eliseo Marine, tornata Madame Le Pen. Ma alle legislative si gioca con altre regole. Va al ballottaggio chi supera il 12,5% (non dei votanti ma degli iscritti alle liste elettorali): in molti collegi ci saranno quattro candidati, e si vincerà per un pugno di voti. L’astensione crescerà, e questo è un vantaggio per il Front National. I socialisti si stanno dividendo tra chi entrerà nelle liste di Macron — come l’ex premier Valls —, chi si prepara a raggiungerlo dopo il voto, e chi invece rafforzerà la Gauche dura e pura di Mélenchon. Anche la destra repubblicana pagherà un salasso al big bang del 7 maggio.
Di solito le legislative sono vinte dal partito del presidente appena eletto; e «La République en marche», nuovissimo nome del nuovo movimento, avrà più deputati degli altri. La maggioranza assoluta appare però lontanissima. Questo non impedirà a Macron di fare le sue riforme. Mitterrand governò senza maggioranza assoluta per cinque anni, tra l’88 e il ’93 (prima della coabitazione con la destra). Ma la Francia europeista, ottimista, aperta al mondo cammina su un sentiero più stretto di quel che appare. Macron dovrà cercare alleati nei vecchi partiti. E fronteggiare sia una forte opposizione in Parlamento, sia un movimento di protesta nella società, che tenterà di fermare la liberalizzazione del mercato del lavoro. La Francia e prima ancora l’Olanda hanno segnato due battute d’arresto per il populismo, dopo i trionfi del 2016. Ma la partita è ancora tutta da giocare. La prossima battaglia si combatte in Spagna, dove il 20 maggio si vota per le primarie del Partito socialista: sono volati insulti tra Susana Diaz, donna d’ordine, disposta a lasciar governare i popolari di Rajoy, e Pedro Sanchez, tentato dall’accordo con Podemos; anche il Psoe, un partito che Felipe Gonzalez (andaluso come la Diaz e suo mentore) aveva portato oltre il 48%, rischia di lacerarsi.
Le ragioni del grande malessere che hanno fatto nascere i populismi sono ancora tutte lì, intatte. L’egemonia tedesca, imposta attraverso l’euro forte e il rigore di bilancio, non si attenuerà certo sotto elezioni: la Merkel non può e non intende concedere più di tanto a Macron, meno ancora agli altri. L’ascensore sociale resta ovunque bloccato: la ricchezza viene «estratta» dai patrimoni immobiliari e dalle rendite di capitali, più che creata con il lavoro, troppo tassato; e invano il nuovo presidente francese proverà a chiedere subito un ministro delle Finanze unico per l’Europa, un fisco comune, l’estensione dei diritti ai lavoratori all’Est, per evitare il dumping sociale all’interno dell’Unione. Classi popolari e ceti medi chiedono protezione e opportunità; e lo sfogatoio della Rete rinfocola la rabbia, incanala la legittima tensione della protesta nel mare magno del rancore, trasforma la discussione pubblica nella rissa di tutti contro tutti. Vladimir Putin, Donald Trump e chi vuole un’Europa debole sono pronti ad approfittarne, anche a colpi di hacker e di tweet. Ma le forze antisistema, per vincere, non possono schiacciarsi a destra, come il Front National in Francia, o a sinistra, come Podemos in Spagna. Devono essere trasversali, prendere voti di qua e di là. E sono più forti dove lo Stato è più distante, il discredito della politica maggiore, il disagio economico più grave. Là dove non si conosce alle 8 della serata elettorale il nome del presidente con un mandato di cinque anni, anzi; non si sa quando si voterà e con quale legge, né chi vincerà davvero e quale governo potrà formare. Insomma, il Paese dove i populisti possono trovare la loro rivincita è proprio l’Italia.
Di solito le legislative sono vinte dal partito del presidente appena eletto; e «La République en marche», nuovissimo nome del nuovo movimento, avrà più deputati degli altri. La maggioranza assoluta appare però lontanissima. Questo non impedirà a Macron di fare le sue riforme. Mitterrand governò senza maggioranza assoluta per cinque anni, tra l’88 e il ’93 (prima della coabitazione con la destra). Ma la Francia europeista, ottimista, aperta al mondo cammina su un sentiero più stretto di quel che appare. Macron dovrà cercare alleati nei vecchi partiti. E fronteggiare sia una forte opposizione in Parlamento, sia un movimento di protesta nella società, che tenterà di fermare la liberalizzazione del mercato del lavoro. La Francia e prima ancora l’Olanda hanno segnato due battute d’arresto per il populismo, dopo i trionfi del 2016. Ma la partita è ancora tutta da giocare. La prossima battaglia si combatte in Spagna, dove il 20 maggio si vota per le primarie del Partito socialista: sono volati insulti tra Susana Diaz, donna d’ordine, disposta a lasciar governare i popolari di Rajoy, e Pedro Sanchez, tentato dall’accordo con Podemos; anche il Psoe, un partito che Felipe Gonzalez (andaluso come la Diaz e suo mentore) aveva portato oltre il 48%, rischia di lacerarsi.
Le ragioni del grande malessere che hanno fatto nascere i populismi sono ancora tutte lì, intatte. L’egemonia tedesca, imposta attraverso l’euro forte e il rigore di bilancio, non si attenuerà certo sotto elezioni: la Merkel non può e non intende concedere più di tanto a Macron, meno ancora agli altri. L’ascensore sociale resta ovunque bloccato: la ricchezza viene «estratta» dai patrimoni immobiliari e dalle rendite di capitali, più che creata con il lavoro, troppo tassato; e invano il nuovo presidente francese proverà a chiedere subito un ministro delle Finanze unico per l’Europa, un fisco comune, l’estensione dei diritti ai lavoratori all’Est, per evitare il dumping sociale all’interno dell’Unione. Classi popolari e ceti medi chiedono protezione e opportunità; e lo sfogatoio della Rete rinfocola la rabbia, incanala la legittima tensione della protesta nel mare magno del rancore, trasforma la discussione pubblica nella rissa di tutti contro tutti. Vladimir Putin, Donald Trump e chi vuole un’Europa debole sono pronti ad approfittarne, anche a colpi di hacker e di tweet. Ma le forze antisistema, per vincere, non possono schiacciarsi a destra, come il Front National in Francia, o a sinistra, come Podemos in Spagna. Devono essere trasversali, prendere voti di qua e di là. E sono più forti dove lo Stato è più distante, il discredito della politica maggiore, il disagio economico più grave. Là dove non si conosce alle 8 della serata elettorale il nome del presidente con un mandato di cinque anni, anzi; non si sa quando si voterà e con quale legge, né chi vincerà davvero e quale governo potrà formare. Insomma, il Paese dove i populisti possono trovare la loro rivincita è proprio l’Italia.