Fonte: Corriere della Sera
di Alessia Rastrelli
Lo scrittore: Usa ed Europa in grande difficoltà. A chi lotta dico: cambiare strategia, basta soldi a chi distrugge l’ambiente
«Nell’ultimo mese la mia casa a Brooklyn si è allagata due volte per le alluvioni. Da anni parlo del cambiamento climatico ma non credo di averlo mai sentito sulla mia pelle come adesso».
Inizia dalla sua esperienza Jonathan Safran Foer, romanziere bestseller e saggista impegnato sul fronte ambientale, edito in Italia da Guanda. Con il «Corriere» è collegato via Zoom proprio dalla sua abitazione, da cui in questi giorni osserva quanto accade alla Cop26 di Glasgow. «Non ho molta fiducia nei governi», chiarisce subito. E si dice insieme «ispirato e triste» per i giovani accorsi in Scozia. A loro, ipotizza, «potrebbe non restare altro che cambiare strategia: non solo, appunto, ispirare ma costringere il mondo a cambiare, boicottando ad esempio certi cibi, aziende, compagnie aeree».
Sembra già proiettato al post Cop26, immaginando un nulla di fatto o comunque nessun passo decisivo.
«Non vedo chi possa guidare la trasformazione. Potrebbero farlo gli Stati Uniti, non tanto per una leadership “morale” che ora non abbiamo, quanto per le dimensioni dell’economia, per la capacità di diffondere i comportamenti, le pratiche. Ma il nostro Paese sta cadendo a pezzi. Non si riesce a far passare leggi su cui tutti sembrano d’accordo, figuriamoci su un tema che ancora divide come la crisi climatica. Senza contare che Donald Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca. Perciò è difficile guardare alla Cop26 senza pensare a una farsa, a una performance».
Dopo un avvio difficile, le assenze di Putin e Xi Jinping, si sono raggiunti alcuni accordi su ambiti specifici. Ad esempio, ridurre del 30% le emissioni di metano entro il decennio, ma Cina, India e Russia non si sono impegnate. È un tema, quello delle emissioni di questo gas serra, che lei affronta in entrambi i suoi saggi ambientali.
«È positivo che i governi pensino di controllarle ma è assurdo che lo facciano senza parlare dell’allevamento intensivo, che è tra le principali cause. Negli Stati uniti questa fonte, proprio nella misurazione delle emissioni di metano, è addirittura ignorata: si tratta di un confronto disonesto con la scienza, un atteggiamento di cui ormai è responsabile non solo la destra ma anche la sinistra».
Potrà essere l’Europa a esercitare una leadership ambientale? In seguito alla pandemia, è previsto un pacchetto di stimolo senza precedenti.
«Purtroppo mi sembra che l’Europa viva condizioni simili alle nostre: la crescita di un nazionalismo spaventoso, il radicalizzarsi delle distanze tra i partiti, l’acuirsi delle diseguaglianze sociali».
Da Glasgow Greta Thunberg ha parlato di «tradimento climatico». Con lei sono arrivati in Scozia giovani che animano le piazze, che si muovono in treno, spesso vegani. Lamentano di essere esclusi dai tavoli decisionali. Che ruolo potranno avere?
«Rappresentano l’ultima speranza. Ma può darsi serva appunto una nuova tattica. Sono soprattutto i giovani ad alimentare l’economia. Perciò dico a loro, ma anche a me stesso, a tutti: abbiamo più potere di quanto pensiamo. Possiamo avere un impatto sia con i nostri comportamenti individuali, sia attraverso il modo in cui spendiamo. Se c’è un settore o un’azienda che sta distruggendo ciò a cui teniamo, non diamogli più i nostri soldi».
Pochi giorni fa, nell’edizione inglese di «Wired», la studiosa di Oxford Hannah Ritchie ha raccomandato di «non dire ai bambini che moriranno per il clima» e «di superare gli scenari apocalittici se si vogliono fare progressi». Christiana Figueres, che diresse i negoziati per l’Accordo di Parigi, ha scritto un libro (Tlon) in cui invita all’«ostinato ottimismo». Serve (anche) cambiare i messaggi?
«In realtà abbiamo forse bisogno di più pessimismo: le persone davvero preoccupate agiscono, sviluppano l’ostinazione di cui parla Figueres. Non sono d’accordo con chi dice che Greta Thunberg “è troppo negativa”. La verità è che non le credono ancora».
Lei ha due figli adolescenti. A loro cosa dice?
«Sono consapevoli della crisi climatica, ma non hanno paura. È un bene e un male. Cerco di non farli diventare ansiosi e adulti prima del tempo, ma serve realismo».
I suoi libri hanno contribuito a sensibilizzare sull’ambiente. Tornerà sul tema?
«Quando ero più giovane mi facevo guidare dall’ispirazione artistica, ora sento la responsabilità. Voglio anche io fare le scelte giuste per la mia famiglia, per la comunità umana, per il futuro, ma non sempre so come. A volte questo mi rattrista, a volte mi fa arrabbiare, a volte mi rende determinato. Al momento non so se pubblicherò ancora sull’ambiente: non scrivo, né vivo, da una posizione di certezza. Parto da domande e problemi da esplorare».