19 Settembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Luca Pagni  e Giacomo Talignani

La corsa del mondo per ridurre le emissioni inquinanti responsabili del cambiamento climatico ha subito negli ultimi anni un rallentamento.
Lo ha denunciato con forza l’Onu: il 2020 è stato l’anno record per la quantità di CO2 prodotta. Non è solo colpa dell’emergenza Covid: tutti i Paesi rivendicano il loro diritto ad arrivare alla neutralità carbonica con i loro tempi e secondo e loro necessità. I Paesi occidentali delle economia più sviluppate spingono più di tutti per neutralizzare le emissioni di CO2 entro il 2050. Ma i Paesi emergenti sostengono che è loro diritto inquinare per qualche anno in più per recuperare il divario con l’Occidente, mentre i Paesi produttori di idrocarburi come Russia e Arabia Saudita hanno la necessità di finanziare la svolta ecologica con la vendita di gas e petrolio ancora per un paio di decenni. Sullo sfondo, i Paesi più “poveri” che rischiano di scomparire sia sotto il peso dei debiti con il resto del mondo, ma in qualche caso anche dalle carte geografiche con l’innalzamento del livello del mare.

Europa e Stati Uniti per la decarbonizzazione entro il 2050
Sono i Paesi che dovrebbero guidare la transizione ecologica e arrivare per primi al traguardo della decarbonizzazione. Unione europea, Stati Uniti e tutte le economie di paesi più sviluppati (che abbracciano anche Giappone e Australia) sulla carta hanno confermato gli impegni presi già in occasione di Cop21 a Parigi: emissioni zero entro il 2050. Ma nonostante le dichiarazioni di intenti e anche gli sforzi economici diretti a finanziare la green economy, l’ultimo rapporto dell’Organizzazione metereologica mondiale segnalato dall’Onu ha rivelato come il 2020 – nonostante le attività rallentate dalla pandemia – sia stato l’anno record per le quantità di emissioni inquinanti.
E anche l’Occidente ha la sua parte di responsabilità e non solo perché Stati Uniti e Germania sono rispettivamente al secondo e quinto posto per quantità di CO2 emessa. Proprio la ripresa dopo i lockdown rivela come il problema ambientale rischia di passare in secondo piano rispetto alla necessità di disporre di energia per sostenere l’economia. Anche se i Paesi sviluppati, se non altro, lo vorrebbero fare spingendo su gas e nucleare per abbandonare il prima possibile il carbone.

Arabia Saudita e Russia finanziano le rinnovabili con gas e petrolio
Sono tra i maggiori responsabili delle emissioni inquinanti. Non tanto direttamente, ma in quanto leader globali nelle esportazioni di idrocarburi. La Russia è al secondo posto (dietro gli Stati Uniti) per la produzione di gas naturale. Stessa posizione per i sauditi per quanto riguarda il petrolio, a loro volta alle spalle degli americani. Perché allora nessuno mette sul banco degli imputati l’amministrazione di Washington? La differenza è data dal fatto che gli Usa arriveranno alla neutralità climatica al 2050, mentre la Russia l’ha posticipata di dieci anni e i sauditi (così come le altre dinastie del Golfo) non si prendono impegni.
Questo non significa che non stiano percorrendo una loro strada verso la decarbonizzazione. Ma ci vogliono arrivare con i loro tempi e seguendo i propri interessi. Sia russi che arabi finanziano il passaggio alla green economy proprio con le vendite di gas e petrolio al resto del mondo. E lo fanno cercando di sostenere il poù possibile i prezzi: sono alleati nell’Opec+, dove hanno appena deciso che non aumenteranno la produzione più di quanto previsto, nonostante le richieste delle cancellerie di tutto il mondo per non penalizzare la ripresa economica.

Cina e India rivendicano il diritto a inquinare: “Come l’Occidente”
Sono i due Paesi che cresceranno di più al mondo nei prossimi due anni, secondo le ultime stime del Fondo monetario internazionale. L’India ancora di più della Cina: il Pil è visto in rialzo rispettivamente del 9,5% e dell’8%, mentre per il 2022 la corsa si fermerà al +8% e al +5,6%. Ma proprio per sostenere la ripresa, i due colossi asiatici hanno il problema di soddisfare
la sete di energia delle proprie attività. E nonostante ogni anno aumentino gli investimenti nelle rinnovabili (la Cina è al primo posto davanti agli Usa per i fondi spesi negli ultimi dieci anni), ancora troppo consistente è il ricorso alle centrali a carbone: Pechino ne vuole aprire di nuove, Delhi dipende per oltre il 60% dal più inquinante dei fossilie vuole arrvare alla neutralità carbonica solo entro il 2070.
Non per nulla, Cina e India rivendicano con forza il loro “diritto a inquinare”. È vero che ora sono al vertice delle classifica delle emissioni di CO2, ma sono ancora lontani dalle prime posizioni se si guarda indietro ai dati storici: l’Occidente ha inquinato a lungo senza avere limiti da rispettare – è la loro tesi – e ora dobbiamo poterlo fare anche noi per raggiungere gli stessi livelli di crescita e benessere.

Dalle Maldive a Samoa: azzeramento dei debiti per non sprofondare
Sono i Paesi che, più di tutti, pagano per le emissioni degli altri. Per questo i rappresentanti degli stati più vulnerabili del Pianeta, dalle isole caraibiche a quelle del Pacifico, per la Cop26 hanno richieste precise: giustizia climatica, sostegno economico per adattamento, mitigazione e transizione energetica – rispettando gli impegni di 100 miliardi di dollari l’anno dai paesi più ricchi – ma anche azzeramento dei debiti e collaborazione tra stati “ricchi e poveri”. Al tavolo dei negoziati della Cop26 i rappresentanti dei Mapa (Most Affected People and Areas arises) ricordano che oggi spendono cinque volte in più nel saldare i debiti con le potenze mondiali che in piani per il clima.
Per questo realtà come l’Uganda chiedono per esempio «l’azzeramento dei debiti», o altre come le Maldive pretendono contributi per affrontare «l’innalzamento dei mari». A causa dei grandi emettitori, come Cina o Usa, se la temperatura aumenterà di due gradi sarà «una condanna a morte per il popolo di Barbuda, di Antigua, delle Maldive, della Dominica, del Kenya e del Mozambico, e per il popolo di Samoa, delle Barbados e altri», ha ricordato in apertura Mia Mottley, premier delle Barbados.

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