Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
L’Unione sta perdendo la scommessa che il cosmopolitismo potesse costituire un collante adeguato
Via via che si aggrava la crisi prodotta dalla pandemia di coronavirus il collante che teneva insieme la costruzione europea viene meno. Certo, decretare oggi la fine dell’Unione non è nelle intenzioni di alcuna autorità responsabile, non da ultimo perché tale fine avrebbe un solo e immancabile risultato: quello di travolgerci tutti, Germania e Olanda comprese. Ma ogni volta i contrasti tra i vari Paesi appaiono più netti, le discussioni più aspre, i compromessi più difficili e più labili. Sotto l’urto dell’elemento tragico che avevamo pensato di avere allontanato per sempre dalla storia, perlomeno dalla «nostra» storia, e che invece è di nuovo presente con l’attuale epidemia, è tutto l’insieme di idee, di valori e d’interessi che fin qui hanno rappresentato il cemento della costruzione europea che si sta sfaldando. Ma non è vero che ciò dipende dal fatto che il collante di cui sopra sarebbe stato costituito soprattutto se non esclusivamente da motivazioni economiche, di cui l’euro avrebbe rappresentato l’apoteosi. Non è vero, insomma, che l’Europa vacilla perché è stata esclusivamente un’Europa dell’economia e della finanza, un’Europa a cui è mancata la necessaria anima politica. Lo abbiamo pensato e scritto in molti, e oggi più che mai continuiamo a farlo, ma le cose forse non stanno proprio così.
Un’anima politica infatti l’Europa l’ha avuta e ha anche cercato in vari modi di coltivarla. È stato il cosmopolitismo. L’idea cioè del primato dell’universalità in tutte le sue possibili declinazioni. L’universalità della pace, delle libertà personali per tutti come della libertà dei traffici e delle transazioni, della giustizia e dei diritti — di ogni diritto, di un sempre maggior numero di diritti — di una sempre più larga trasformazione di ogni facoltà in un diritto. Un paradigma cosmopolita in tutti i sensi espansivo dunque (anche territorialmente: non a caso perfino i confini geografici europei rimangono a tutt’oggi indefiniti), ma al tempo stesso tendenzialmente smaterializzato, politico ma in senso assai debole, com’è destino di ogni cosmopolitismo. S’iscrivono in questa prospettiva l’adozione di principio del liberismo economico e il restringimento della sfera statale. Smaterializzazione significa anche l’assenza al proprio interno, anche in caso di estrema urgenza, come stiamo vedendo oggi, di qualunque strumento politico concreto di tipo coercitivo: perfino dello strumento di questo tipo che è in certo senso rappresentato dal principio di maggioranza (com’è noto nell’Unione tutte le decisioni di rilievo richiedono l’unanimità).
Proprio questa è la scommessa che l’Europa oggi sta perdendo: la scommessa che il cosmopolitismo potesse essere un collante adeguato a una costruzione che almeno nelle intenzioni si concepiva come un corpo politico sia pure in fieri. Ma ogni cosa indica che la smaterializzazione cosmopolitica implica necessariamente la spoliticizzazione: che su una dimensione fredda come è quella del cosmopolitismo si può è vero fondare l’astrattezza di un corpus giuridico e di una serie di trattati, ma non si può con essa accendere il fuoco della politica. L’universalismo va bene per stabilire dei diritti non per prendere decisioni. E senza la decisione, cioè senza il cuore della politica, i diritti stessi sono destinati a deperire o a restare fin dall’inizio lettera morta. Non è un caso se per divenire un’operante realtà storica i diritti individuali dell’universalismo liberale hanno avuto bisogno d’incontrarsi e per così di dire di sposarsi con l’idea e la realtà della nazione e dello Stato nazionale, vale a dire con la più calda fra tutte le dimensioni della politica. Senza la quale, c’è da scommetterci, quei diritti sarebbero rimasti appesi al niente delle buone intenzioni.
Ma se il collante del cosmopolitismo giuridico mostra tutta la sua fragilità, dove può rivolgersi allora l’Europa per trovare un’anima politica? Sarebbe sciocco presumere di poter dare una qualunque indicazione in proposito. Ciò che invece mi sentirei di suggerire è perché la sua ricerca stenta tanto, perché la politica sta diventando per l’Unione come per tutte le élite del continente un terreno impervio dove l’una e le altre non sembrano capaci che di offrire prestazioni tutto sommato miserevoli. Il perché sta a mio giudizio nell’inaridimento delle due fonti che da sempre hanno alimentato in Europa la dimensione della politica e che non sono state sostituite da nulla: la religione cristiana e la cultura classica, per lungo tempo intrecciate in un unico, peculiare, percorso formativo.
Nell’esperienza occidentale la politica è sempre stata debitrice verso la religione delle sue categorie fondamentali: non a caso si parla comunemente da parte degli studiosi di una vera e propria «teologia politica». In questo continente insomma — ma in generale in tutta l’area della civiltà occidentale — per le forme del potere, per i suoi modi e le sue regole nonché per l’azione sociale, per i valori e gli obiettivi di questa, per la politica nel suo insieme, il retaggio giudaico-cristiano ha rappresentato nel corso dei secoli un formidabile deposito d’ispirazione e d’imitazione. La nostra idea di monarchia e di nazione così come il liberalismo, la democrazia, l’idea di rivoluzione, il socialismo, il comunismo, insomma tutto ciò alla cui luce si è svolta l’intera vicenda politica europea fino alla seconda metà del Novecento, è inconcepibile senza tale retaggio. Dominato da un universalismo etico ben diverso dal civile cosmopolitismo della cittadinanza.
Dal suo canto la cultura classica, le antiche vicende della Grecia e di Roma, hanno non solo fornito in gran numero gli esempi, ogni volta quasi il prototipo, dell’agire politico coniugato nei suoi modi più caratteristici (l’ambizione, la virtù, la corruzione). Ma è stata dalla cultura classica e insieme da quella religiosa, da queste due decisive dimensioni del passato e del nostro legame con esso, che nel corso della loro storia gli europei hanno anche personalmente tratto la scala dei propri valori, l’insieme delle disposizioni psichiche, emotive e ideali, che nelle più diverse circostanze li hanno orientati personalmente ai modelli della virtù individuale e del bene collettivo. Modelli che si sono rivelati così decisivi nel definire il rapporto del nostro continente con la politica, tanto intenso quanto fecondo.