20 Settembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Corrado Zunino

Nel rapporto tra test e popolazione solo gli Emirati arabi davanti a noi. Nel nostro Paese 1,75 milioni di prove: quelle giornaliere sono quadruplicate in un mese. Ricciardi e Brusaferro erano contrari, ma il modello Veneto si è dimostrato più efficace di quello lombardo

Angelo Borrelli, capo Dipartimento della Protezione civile, ha provato a dirlo nella conferenza di prima sera: “Siamo tra i Paesi al mondo che fa più tamponi”. Siamo anche qualcosa più, in verità. L’Italia è la quarta nazione al mondo in numeri assoluti, tra le quindici che hanno fatto più test. Ed è la seconda – seconda solo agli Emirati arabi uniti – per tamponi realizzati rispetto alla popolazione.
Il sistema sanitario italiano per settimane – una delle tante contraddizioni nel suo avvio di contrasto a una malattia emergente – ha sostenuto che non serviva fare più tamponi, i test orofaringei, per scoprire i contagiati reali e vincere la battaglia del Covid (lo ha sostenuto a lungo Walter Ricciardi, per esempio, consulente del ministro Roberto Speranza e rappresentante italiano per l’Organizzazione mondiale della sanità). Lo ha ribadito lo stesso Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità: “Altre politiche sull’uso dei tamponi non sono state esaminate”, ha detto spiegando che i test andavano fatti solo a chi aveva sintomi chiari. Il ministro Speranza ha difeso gli espertoni pubblici fino a quando ha potuto: “Il tampone non è sufficiente, è la fotografia di un istante, la soluzione è l’isolamento”. Ma il 24 marzo scorso duecentonovanta rappresentanti della comunità scientifica nazionale scrivevano al premier Conte una lettera per far annettere nuovi laboratori, anche privati, alla rete di ricerca sul Covid-19 e per aumentare proprio i test orofaringei: “Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida dell’estensione del contagio”. Era chiaro, il documento: “Così pagheremo un prezzo altissimo, aumentare i test è necessario per interrompere la catena di contagio”.

Un ritardo che ha aumentato i contagi
Il prezzo è stato pagato: siamo terzi al mondo per contagi (sulla soglia dei duecentomila), secondi per decessi. E la mancata strategia del tampone ne è stato un elemento. Il biomedico statistico Enrico Bucci, autore delle indagini matematiche più seguite, lo aveva detto al Consiglio regionale della Regione Lombardia: “Il tampone è l’inizio di una strategia di riconoscimento del mondo del contagiato”. Aggiunge adesso: “Va detto che in Lombardia, a differenza del Veneto, quando è esploso l’allarme il virus era probabilmente in giro da un mese e mezzo”.
Ancora lo scorso 3 aprile una circolare del ministero della Salute aveva reso esplicito che “se la capacità dei laboratori che analizzano i test è limitata”, i tamponi vanno fatti solo ai pazienti che rientrano in alcune categorie prioritarie – i ricoverati, gli operatori sanitari a rischio e i pazienti più fragili – e che “tutti gli altri individui che presentano sintomi possono essere considerati casi probabili e isolati senza test supplementari”. Ecco, le indicazioni del ministero, insieme al parere di insigni scienziati, sembra essere stato condizionato dal problema esistente nell’organizzazione sanitaria italiana: non ci sono laboratori a sufficienza, non si riescono a fare tutti i tamponi raccomandati e, quindi, migliaia di casi sospetti non vengono testati.La Corea – ormai è letteratura – ha affrontato prima e meglio di tutti la sfida epidemiologica e oggi può vantare dieci nuovi casi soltanto in una giornata – ieri – perché, oltre ad allestire politiche di sanificazione ossessive, si è affidata subito a un mezzo, il tampone, che consente di individuare subito il contagio e avviare l’investigazione a ritroso: chi hai frequentato in questi giorni, con nome e cognome. Anche la Germania ha abbracciato il metodo e si è riproposta di fare 500 mila tamponi a settimana: non è mai arrivata a quei volumi e oggi, con l’insidia clinica sotto controllo, ha notevolmente limitato il metodo.
L’Italia ha avviato le sue strategie, al solito con modalità divaricate: il metodo Lombardia (che oggi ha prodotto 72.889 casi e 13.325 deceduti) e il metodo Veneto (che, con i contagi diventati pubblici nelle stesse ore, il 21 febbraio, è riuscito a contenere i casi in un quarto e a contenere i decessi in 1.315). Oggi Lombardia e Veneto sui tamponi effettuati hanno numero simili (338 mila e 316 mila), ma la prima ha una popolazione doppia e in quei giorni di fine febbraio quando il contagio si manifestò il secondo mostrò una reazione più rapida e massiccia.Tutto è cambiato. L’Italia nell’arco di un mese ha quadruplicato i tamponi. Oggi abbiamo fatto un milione e 758 mila tamponi in sessantré giorni. Prendendo come riferimento i “tamponi fatti” – nei siti internazionali che offrono queste misurazioni non esiste il dato dei “casi testati”, visto che in alcune situazioni sono stati fatti due tamponi per una persona -, si scopre che l’Italia ha fatto 2,9 test ogni cento persone: è il secondo dato mondiale, abbiamo visto, dopo gli Emirati arabi (che sono al 10,6 per cento). Ancora il 18 marzo i test di giornata nel nostro Paese erano stati 16.884, il 25 aprile hanno toccato quota 65.387. Quattro volte tanto. In questa crescita rapida, e contraria alle parole degli espertoni pubblici, direttamente gestita da chi ne comprendeva sul territorio l’importanza, gli ospedali, ci si è scontrati con la rete dei laboratori certificati da allargare e il faticoso approvvigionamento dei reagenti chimici.
In valore assoluto l’Italia viene dopo gli Stati Uniti (5,5 milioni), la Russia (2,9 milioni) e la Germania (oltre due milioni). Rispetto alla popolazione, però, siamo davanti a queste grandi nazioni. La Corea non ha avuto più bisogno di tamponi di massa e oggi è decima in questa classifica con 600 mila prelievi effettuati. La Cina non ha mai ufficialmente dichiarato i tamponi fatti.

Australia e Corea hanno contenuto i positivi
C’è un altro dato interessante, e spiega perché nel nostro Paese i potenziali infettati sono di più. E’ il rapporto tra tamponi realizzati e contagi identificati. Tra i primi quindici Paesi per numero di test, l’Italia ha un contagiato ogni 8,9 tamponi. E’ un rapporto ancora alto, anche se in miglioramento (undici giorni fa era uno ogni 6,8). Se questa progressione fosse statisticamente applicabile a tutta la popolazione, significherebbe che nel Paese ci sono 7 milioni di contagiati (cifra sulla quale, tra l’altro, convergono diversi studi realizzati in discipline diverse). Per capire, tralasciando il dato del Venezuela di cui è difficile comprendere l’attendibilità (solo 325 casi dichiarati, un contagiato ogni 1.331 tamponi provati), negli Emirati arabi servono 102 tamponi per scoprire un positivo, in Australia 77, in Corea 56 e in Germania 13,1. Colpisce il disinteresse al metodo di avvistamento e previsione da parte della Francia, tredicesima al mondo per test eppure quarta sia per positività che per decessi
Uno dei sostenitori della politica del tampone è stato Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, a sua volta copito dal Covid. Dice adesso: “Appena sono uscito dall’isolamento, guarito, ho detto: dobbiamo fare più test. Il Veneto ha scelto subito la strada giusta per un virus i cui sintomi sono subdoli. Per troppo tempo in molti, a casa, non hanno ricevuto tamponi e hanno infettato inconsapevolmente i familiari”.

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