10 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Silvia Turin

L’arrivo del picco viene calcolato, ma i margini di errore sono alti perché il virus è nuovo e l’andamento dipende davvero da quanto rispetteremo le misure decise


Siamo alle prese con un aumento dei casi su (quasi) tutto il territorio nazionale e specialmente in Lombardia. Stiamo raggiungendo il picco dell’epidemia? È possibile prevedere quando sarà?
I modelli matematici ci sono e anche alcune previsioni: chi fa un parallelo con la Cina, chi lo fa con altre epidemie, il problema è che ogni epidemia è diversa e ogni territorio è diverso e risponde con misure differenti e comportamenti propri. Per questo quelle che si possono fare sono solo previsioni a spanne: «È difficile fare previsioni, ci sono vari modelli che circolano, ma tutti i modelli presuppongono delle assunzioni, cioè alcuni eventi che vengono predeterminati, ma noi ci troviamo in una situazione nuova e guardando i nostri dati al momento non mi sento di fare previsioni», ha detto in conferenza stampa domenica il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro.

Quali sono le variabili che entrano nel calcolo dell’arrivo di un picco? Lo abbiamo chiesto a Paolo Bonanni, professore di Igiene presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Firenze.
«Il picco si calcola sulla base del valore di R con zero, che è il “tasso di contagiosità” che per questo virus abbiamo visto sta tra 2,5 e 3. Questo vuol dire che mediamente ogni persona (in una popolazione non immune come la nostra ora) ne infetta da 2 a 3 e così si possono fare delle previsioni con modelli matematici più o meno dettagliati su come andrà la curva epidemica con questo tasso di contagio. Questo valore in parte dipende dalle caratteristiche biologiche del virus, ad esempio il morbillo è molto più contagioso del SARS-CoV-2 e l’influenza meno, ma non solo: conta anche il livello di densità della popolazione, cioè quante persone si incontrano, per quanto tempo, quanto a lungo».

Quindi l’R0 potrebbe essere più alto ora in Lombardia rispetto ad altre regioni italiane?
«Sicuramente sì, una popolazione più addensata ha un R0 più alto. Quello che stiamo facendo adesso serve a togliere terreno al tasso di contagiosità, il distanziamento sociale fa in modo che, pur rimanendo inalterate le caratteristiche che dipendono dalla biologia del virus, si riduca il picco in altezza, cioè la diffusione del contagio. Altrettanto importante è però spostare il picco più in là nel tempo, in modo che si dia tempo al sistema sanitario di reagire, di avere posti liberi perché le persone sono nel frattempo guarite».

L’obiettivo qual è?
«Abbassare verticalmente il picco, quindi ridurre il numero totale dei casi, ma anche cambiare la data di arrivo e spostarlo più in là: un obiettivo importante per il sistema sanitario (come mostra il grafico sopra, ndr), visto che la criticità aumenta quando non si riesce a far fronte a tanti casi gravi contemporaneamente e visto che operare con un picco di moltissimi casi in pochi giorni rende purtroppo più alto anche il valore della letalità».

La presunta stagionalità del virus è una delle variabili del calcolo?
«Non ci sono presupposti scientifici, ma alcuni pensano che la stagione calda possa influire sull’andamento dell’epidemia: ce lo auguriamo in tanti ma non abbiamo dati che lo confermino per ora».

Ci sono dei modelli matematici che indicano delle date del picco?
«I modelli ci sono, li abbiamo, ma per ovvi motivi di non-allarmismo e di serietà non vengono divulgati, visto che sono proiezioni ad uso di chi gestisce l’emergenza e comprendono dati che presentano delle carenze. Non sappiamo quanto sono affidabili perché non possiamo sapere tutto di questo virus, i margini di errore sono molti».

La presunta data di picco dipende anche dal rispetto delle misure di restrizione?
«Quello che sappiamo per certo è che più ci atteniamo alle indicazioni che ci ha dato il governo, più contribuiamo a ridurre il numero dei casi, l’affollamento delle rianimazioni, avremmo meno morti e forse una coda un po’ più lunga dell’epidemia, ma questo non ci preoccupa più di tanto, perché l’importante è non avere i picchi tutti insieme perché sennò mettiamo in discussione la possibilità di salvare le persone. Questo è un momento cruciale perché il contenimento del virus dipende dal nostro comportamento, se le persone continuano a vedersi nonostante i divieti saranno responsabili di un aumento notevole del numero dei casi e purtroppo anche dei morti: c’è veramente una responsabilità sociale fortissima, minimizzare significa aumentare le probabilità che muoiano le persone».

In Cina l’epidemia è finita?
«Finita no, sta rallentando e le loro misure hanno consentito di bloccare la diffusione. A volte la coercizione è quello che serve».

Quando si può dire davvero “è finita”, quando i casi sono zero?
«Sì. Si può dire finita quando non ci sono più casi di una malattia che non è diventata endemica (cioè, ancora presente in quel territorio, ndr). Bisognerà vedere appunto se il coronavirus diventerà endemico, cioè se al di là dell’episodio con il picco più alto, la malattia continuerà nei mesi a venire ad esistere, anche se in pochissime persone e magari con una virulenza minore dal punto di vista clinico».

Le misure in Cina si possono allentare?
«In Cina adesso il rischio è che quei pochi che ci sono contagino i suscettibili, che sono ancora moltissimi, dato che il virus è nuovo. Le misure vanno mantenute per tempi più lunghi rispetto a quando si vede un calo significativo dei casi».

Potrebbe ricominciare tutto da capo?
«In Cina potrebbe ricominciare tutto con una reimportazione dei casi da aree del mondo dove l’infezione ha avuto un andamento più ritardato. In questo momento siamo noi il pericolo per loro. Il problema in generale è la non-sincronia dei focolai epidemici in tutto il mondo. Potremmo stare tranquilli quando vedremo una sostanziale riduzione del numero dei casi anche negli altri Paesi. Le misure vanno mantenute per un tempo significativamente lungo per poter essere sicuri che l’epidemia non riprenda».

I guariti stanno contribuendo a sviluppare la cosiddetta immunità di gregge?
«È ancora molto presto. Noi non sappiamo quanti sono gli asintomatici, ma i 724 guariti (al 9 marzo, ndr) sono niente rispetto alla popolazione italiana, non hanno la massa critica necessaria a rallentare il contagio».

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