Riaffiora il problema del metodo e di una cultura politica. La tendenza è a declinare il potere come diritto a decidere senza condizionamenti
C’è solo da sperare che la maggioranza capisca. Quando si tratta di istituzioni di garanzia come la Corte costituzionale, il metodo è sostanza. E il tentativo di imporre un proprio candidato senza coinvolgere le opposizioni può diventare un boomerang; e non solo quando non riesce, come ieri. Lo è anche quando tende a piegare a logiche di governo organi come la Consulta, legittimati dal fatto di essere percepiti come neutrali. Si può poi discutere sull’opportunità di scegliere di non partecipare alla votazione, come hanno fatto le opposizioni.
Probabilmente, sulla decisione ha pesato anche il timore di dividersi sul voto segreto. E forse il governo contava su qualche defezione. Ma ha offerto un pretesto agli avversari, e il risultato è stato una sconfitta e una prova di impotenza del Parlamento, incapace di eleggere un giudice costituzionale. Tra l’altro, l’impressione è che optando per la scheda bianca la coalizione di Giorgia Meloni abbia tradito dubbi sulla tenuta della sua alleanza. L’astensione è stata decisa in extremis, quando il governo ha visto che rischiava di perdere pezzi.
Ora la questione è che fare dopo l’ottava fumata nera. Si ripresenta il dilemma di un negoziato, sebbene non affiorino ripensamenti: almeno ufficialmente. La maggioranza sembra tentata da nuove prove muscolari. Sembra, perché il pasticcio di ieri dovrebbe spingere tutti a più miti consigli. Prevedere nella Costituzione una maggioranza superiore a quella di governo indica l’esigenza di un accordo ampio.
E la scelta del candidato, Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della premier, suggerirebbe cautela. Non per i suoi titoli, che lo legittimano in pieno, ma perché è l’estensore della riforma del premierato: uno dei temi sui quali la Corte si dovrà pronunciare. È possibile che Marini venga riproposto. Ma le probabilità di essere eletto appaiono legate alla capacità di offrirlo al Parlamento non come un’imposizione. Riaffiora, insomma, il problema del metodo e di una cultura politica. La tendenza è a declinare il potere come diritto a decidere senza condizionamenti: un’abitudine emersa già con le coalizioni guidate dal M5S.
Può darsi che alla fine questo atteggiamento prevalga. Eppure rischia di logorare le istituzioni di garanzia e lo stesso esecutivo. Entro dicembre dovranno essere eletti altri due giudici. Un epilogo conflittuale come quello di ieri potrebbe riprodursi, radicalizzato. Mentre lo scenario da evitare è quello di una sequela di forzature e ritorsioni che si scaricherebbero sulla Corte costituzionale. Significherebbe rimodellare il sistema in modo distorto. E preparare uno scontro destinato non tanto a riformare le istituzioni ma a delegittimarle.