20 Settembre 2024

Fonte: Repubblica

La delibera in risposta a due ricorsi da Belgio e Francia. La sentenza: “Una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione”

Le aziende possono vietare ai propri dipendenti di indossare indumenti che siano “segni religiosi” come il velo islamico: lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea, basata a Lussemburgo, che è stata chiamata a decidere su due ricorsi di donne musulmane, uno dal Belgio e uno dalla Francia, relativi alla possibilità di presentarsi al lavoro con il capo coperto in osservanza alla religione musulmana.
“Una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione”, ha deliberato la Corte.
Nella sentenza si rileva però che il divieto “può invece costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia.
Tuttavia, tale discriminazione indiretta può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, purché i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.

Il primo caso.
Riguarda Samira Achbita, receptionist di fede musulmana assunta alla G4S, che fornisce servizi di accoglienza a clienti sia del settore pubblico sia del settore privato. All’epoca, una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Nell’aprile 2006, la receptionist ha informato il datore di lavoro del fatto che intendeva indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro. In risposta, la direzione le ha comunicato che il fatto di indossare un velo non sarebbe stato tollerato. Dopo un periodo di assenza dal lavoro per malattia, la dipendente ha comunicato che avrebbe ripreso l’attività lavorativa e che da allora in poi avrebbe indossato il velo islamico.
Poco dopo il comitato aziendale della G4S ha approvato una modifica del regolamento interno prevedendo il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi. Più avanti, la dipendente, che ha continuato a indossare il velo durante il lavoro, è stata licenziata.
Nella sentenza di oggi, la Corte ricorda che nella direttiva Ue si intende per principio di parità di trattamento l’assenza di qualsiasi  discriminazione diretta o indiretta basata, tra le altre cose, sulla religione. Sebbene non contenga alcuna definizione della nozione di religione, il legislatore dell’Unione ha fatto riferimento alla convenzione europea dei diritti dell’uomo e alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, riaffermate nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Pertanto, la nozione di religione deve essere interpretata nel senso che essa comprende sia il fatto di avere convinzioni religiose, sia la libertà degli individui di manifestarle pubblicamente.
La norma interna della G4S tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento. Per la corte non risulta che tale norma interna sia stata applicata in modo diverso alla dipendente in questione.

Il secondo caso
È francese e riguarda il caso di Asma Bougnaoui, ingegnere progettista che durante una fiera dello studente, prima di essere assunta dall’impresa privata micropole, è stata informata che indossare il velo islamico avrebbe potuto porre problemi quando fosse stata a contatto con i clienti. In seguito alla lamentela di un cliente cui era stata assegnata dalla Micropole, l’impresa ha ribadito il principio di necessaria neutralità nei confronti della clientela e le ha chiesto di non indossare più il velo. Data la risposta negativa, la donna è stata licenziata.
La “deludente” sentenza della Corte di giustizia Europea “darà più margini di manovra ai datori di lavoro per discriminare le donne – e gli uomini – per motivi di fede religiosa” dice John Dalhuisen, Direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale. “In un momento in cui l’identità e l’apparenza sono diventati campi di battaglia politica, le persone hanno bisogno di più protezione contro i pregiudizi, e non meno”, ha ammonito. “La Corte ha sostenuto che i datori di lavoro non sono liberi di assecondare i pregiudizi dei loro clienti – sottolinea Dalhuisen – ma affermando che le politiche aziendali possono vietare i simboli religiosi per assicurare ‘neutralità’, hanno fatto rientrare dalla porta di servizio gli stessi pregiudizi. È ora che i governi nazionali rafforzino e proteggano i diritti dei loro cittadini”, conclude.
Amnesty International, insieme con la Rete Europea contro il Razzismo, ha già sottoposto alla Corte le proprie osservazioni secondo le quali entrambe le misure imposte dalla G4S Secure Solutions NV e dalla Micropole SA nei confronti dei loro dipendenti costituiscono discriminazione basata sulla religione o sul credo. Il documento ‘Wearing the headscarf in the workplace.

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