Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Se la Lega qui non dovesse sfondare, la sua marcia su Roma si fermerebbe, chissà per quanto tempo
Non è chiaro se una sconfitta della sinistra in Emilia-Romagna farebbe cadere il governo. Di certo taglierebbe le radici del Pd. Perché colpirebbe al cuore la sua ragione sociale: il riformismo. L’Emilia infatti è stata il riformismo italiano, ante litteram. Quando il Pci in Italia sognava ancora di fare come in Russia, a Bologna e dintorni la sinistra era invece già una ragionevole pratica di buon governo, e un accorto sistema di alleanze sociali tra contadini, operai e borghesia produttiva. Non ci sono molti altri luoghi nel nostro Paese dove questi ingredienti siano riusciti a combinarsi così bene da produrre, nel tempo, progresso economico e coesione sociale. È giusto non dimenticarlo neanche oggi, nel fuoco di una battaglia politica che per condannare il «modello emiliano», certamente logorato dagli anni e dal monopolio del potere, rischia però di rinnegarne il valore e i non pochi successi.
L’Emilia-Romagna ha inventato molte cose nella storia d’Italia. Il tricolore, tanto per dirne una, a Reggio nel 1797, e con esso il patriottismo, che all’epoca non c’entrava niente col sovranismo e anzi si ispirava alla rivoluzione francese. Ha inventato anche il fascismo, perché fu nelle campagne padane, esattamente cent’anni fa, nel 1920, che trovò il suo spazio a destra, mettendo le «camicie nere» al servizio degli agrari per liberarli dal pericolo socialista (Dino Grandi era il ras di Bologna, Italo Balbo di Ferrara). Il conflitto politico assunse i caratteri di una guerra civile anche dopo la Liberazione, quando furono i rossi a consumare le loro vendette nel Triangolo della morte. E qui è nato l’antifascismo militante della Prima Repubblica: i cinque ragazzi di Reggio Emilia uccisi dalla polizia nel luglio del 1960 manifestavano contro il congresso del Movimento Sociale, autorizzato a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, dal governo Tambroni.
Ma l’Emilia-Romagna è stata anche il terreno di grandi sperimentazioni e modernizzazioni dello Stato sociale. Oggi si parla molto dei bambini di Bibbiano, sottratti alle famiglie d’origine, e dei 108 capi di accusa che la destra mette tutti sulle spalle del «sistema emiliano», e di riflesso sulla sinistra, sempre al governo da queste parti. Ma bisognerebbe anche ricordare che in quella stessa provincia fu inventato il cosiddetto «Reggio approach», grazie alla visione del pedagogista Loris Malaguzzi, una scuola dell’infanzia basata sui diritti dei bambini, modello ammirato e studiato in un centinaio di Paesi nel mondo: gli asili nido sono nati qui prima che nel resto d’Italia. Oggi si polemizza sul dopo terremoto del 2012, ma non si dovrebbe dimenticare che la filosofia del ricostruire «dov’era, ma non com’era» fu il frutto della svolta urbanistica di Pier Luigi Cervellati, l’architetto che firmò il celebre Piano del centro storico di Bologna del 1969, primo esperimento di restauro urbano a fare scuola in Italia e all’estero. E i riformismi si sono anche incontrati in Emilia. Le due anime del suo popolo, quella comunista e quella cattolica, non hanno infatti dato vita solo alla saga letteraria di Peppone e Don Camillo, ma anche all’incontro storico tra Guido Fanti, sindaco di Bologna negli anni 60, e il vescovo cardinal Lercaro. Fu in quella città che Giuseppe Dossetti venne eletto in consiglio comunale per la Dc, e fu in Emilia che, ormai sacerdote, si ritirò nella comunità monastica da lui fondata, la Famiglia dell’Annunziata, quando il cardinal Lercaro venne rimosso da papa Paolo VI per l’omelia in cui condannò senza appello i bombardamenti sul Vietnam, «in nome di Dio».
Non è insomma un caso se, quando la sinistra provò a risorgere dalle ceneri del Pci e cercò un cattolico per affidarvisi, si rivolse a un professore di Bologna, Romano Prodi. Certo, oggi la città delle Due Torri non è più quel gioiello che per anni rappresentò la migliore e forse unica vetrina del comunismo all’italiana: la capitale della Terza Italia, fatta di senso civico e di uno strano impasto di bonomia, benessere, e tortellini. Anche l’Emilia-Romagna è stata percorsa, come tutto il resto d’Italia, dai venti della post modernità, con il degrado sociale e culturale che ne è conseguito. E forse si può dire che quel riflesso pragmatico e da «legge e ordine» che c’è sempre stato nel fondo dell’elettorato comunista, sedotto vent’anni fa dal fenomeno Guazzaloca e oggi forse da Salvini, è il tratto conservatore di una regione progressista a modo suo. Ma è fuor di dubbio che la sua storia sia stata magna pars della storia d’Italia, e spesso della migliore.
Gli elettori non votano però sul passato. Ne tengono conto, ma si concentrano sul futuro. E quelli di Ferrara o di Piacenza non sono come quelli di Bologna o Modena, e l’Appennino è cosa diversa dalla pianura, e per questo può davvero accadere ciò che fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile: la sconfitta del riformismo padano. Però, avendola giocata all’attacco sul piano nazionale, fate cadere l’Emilia rossa per far cadere il governo giallo-rosso, anche Salvini ha messo sul piatto una posta molto elevata: non dovesse sfondare qui, la sua marcia su Roma si fermerebbe, come un Cesare alla rovescia, lì dove il Rubicone incontra la via Emilia. E chissà per quanto tempo.