22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

europa

di Arthur Rutishauser

Lettera dall’Europa / Tages-Anzeiger

A tutto ci si abitua, anche alla crisi. Da oltre un anno, gli Stati europei lo dimostrano quasi ogni giorno: dapprima sulla questione dei fondi alla Grecia, poi sull’inarrestabile afflusso dei migranti, e da ultimo sulla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna. Questi tre punti sono seguiti con grande attenzione dalla Svizzera, che per i suoi stretti rapporti economici con l’Ue è direttamente esposta, nel bene e nel male, a ogni decisione sulla valuta europea. Quanto poi al problema del flusso migratorio, i legami di Berna con Bruxelles sono anche più stretti di quelli di Londra, per i suoi trattati bilaterali con l’Ue. La Svizzera fa parte dello spazio Schengen. E benché non sia uno Stato membro, i suoi rapporti con l’Unione Europea sono perennemente in crisi.
Mentre il problema Grecia (tutt’altro che risolto) è scomparso come per miracolo dai titoli di testa, la crisi migratoria e i timori suscitati dalla Brexit sembrano destinati a occupare a lungo le prime pagine dei giornali. In fondo si tratta di un unico problema: la paura di “invasioni” fuori controllo – che si tratti di profughi o di extra-comunitari non graditi, soprattutto dall’Est europeo. La libera circolazione, nelle sue varie forme – dalla cultura dell’accoglienza promossa dalla Germania al libero scambio della forza lavoro sancito dalle norme di Bruxelles – non può più contare sul favore maggioritario dei cittadini europei; al contrario, suscita paure crescenti, fino agli eccessi xenofobi che credevamo ormai superati da settant’anni.
È come se nelle capitali della vecchia Europa la nomenclatura avesse perso quasi ogni contatto con la realtà; al suo posto è subentrato un timore degli elettori che rasenta il panico. Altrimenti non si comprenderebbe come mai la Commissione, col polacco Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo, abbia potuto redarguire il governo austriaco per aver fissato un tetto massimo all’afflusso dei profughi, e ciò benché l’Austria sia notoriamente uno dei pochi Paesi disposti ad aprire le porte a un numero consistente di rifugiati. O perché Viktor Orbán venga tacciato di populismo per la volontà di indire un referendum sulla ripartizione dei rifugiati – anche se tutti sanno che quando contesta le direttive europee sull’immigrazione, il premier ungherese non fa altro che esprimere una percezione diffusa nei Paesi dell’Est europeo. Ed è quella stessa paura a spiegare la decisione dei capi di governo dell’Ue di indire un vertice straordinario per venire incontro alla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna.
Anziché ascoltare la gente e agire in maniera più pragmatica per realizzare il sogno di un’Europa unita, i responsabili non fanno altro che formulare pseudo-accordi, che da subito si rivelano destinati a rimanere lettera morta. Come la decisione, semplicemente ignorata, di distribuire tra i Paesi europei 160.000 rifugiati. O la promessa di tre miliardi di euro alla Turchia (una tangente?) affinché assista i rifugiati sul suo territorio, per evitare che premano in massa sull’Europa occidentale. Finora, di quei miliardi nei campi profughi non si è vista neppure l’ombra.
Il premier britannico viene rispedito a casa con un viatico di mini-riforme in campo sociale, i cui effetti saranno praticamente nulli. Partito con la promessa di arginare l’afflusso di immigrati in Gran Bretagna, David Cameron deve accontentarsi della vaga promessa di una clausola di salvaguardia che non ha neppure la facoltà di attivare direttamente. Evidentemente si pensa di poter condurre una campagna imperniata sulla paura, per indurre i britannici a seppellire una volta per tutte, il prossimo 23 giugno, qualunque progetto di uscita dall’Ue.
Sui tre grandi problemi dell’Ue – la permanenza della Grecia nell’Eurozona, l’immigrazione di massa e la libera circolazione in un’Unione sempre più estesa – c’è da fare una considerazione che li accomuna: si è preteso troppo dal progetto europeo. E si chiede troppo ai cittadini dell’Unione. In tutti e tre questi campi manca la legittimazione democratica. E anche se i relativi progetti potrebbero apportare vantaggi ad altri livelli, nell’immediato comportano maggiori costi per i cittadini, più disoccupazione e insicurezza sociale.
Che fare? Nel processo di unificazione europea servirebbe probabilmente una battuta d’arresto, per tornare a dare la priorità alla politica del fattibile e al conseguimento di vantaggi tangibili per la popolazione. È ora di accantonare i principi di Bruxelles, che nessuno più vuole, per passare a una politica più duttile, aperta alle eccezioni e alle soluzioni pragmatiche. Una politica in grado di dare a tutti gli interessati la sensazione che le loro preoccupazioni vengano prese sul serio. Solo così si potrà evitare che le élite europee entrino in crisi ogni qual volta si annunci – in Gran Bretagna, in Ungheria o magari in Svizzera – la decisione di indire un referendum.

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