19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

L’opposizione al Mes offre l’occasione per riflettere sulle somiglianze, ma anche sulle differenze, fra i due partiti. Entrambi vengono definiti «populisti» e, per certi versi, l’espressione è corretta. Coglie quanto hanno in comune. Ma non permette di comprendere le differenze


Il principale partito di governo, i 5 Stelle, e il principale partito di opposizione, la Lega, non vogliono i fondi europei del Mes. Gli argomenti di Matteo Salvini (sul Corriere di ieri) per giustificare il rifiuto di denaro che, impiegato nella sanità, consentirebbe di destinare ad altri usi le nostre scarse risorse, sembrano piuttosto fragili. Più che altro, servono a ribadire la diffidenza leghista per tutto ciò che ha il marchio dell’Unione europea (nonché della detestata Germania).
L’opposizione di 5 Stelle e Lega al Mes offre l’occasione per riflettere sulle somiglianze, ma anche sulle differenze, fra i due partiti. Entrambi vengono definiti «populisti» e, per certi versi, l’espressione è corretta. Coglie quanto hanno in comune. Ma non permette di comprendere le differenze. Una cosa che certamente hanno in comune è l’antieuropeismo (di cui il rifiuto del Mes è una conseguenza). Essere contro l’Europa ha sempre significato, per entrambi i partiti, essere contro l’Establishment, le Caste, il Grande Capitale, l’Alta finanza.
Certo, i loro differenti ruoli del momento (l’uno al governo, l’altro all’opposizione) comportano divergenze di toni e di stile. In materia di Europa, i 5 Stelle ricordano oggi la posizione dell’allora segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer , sulla Nato ai tempi del compromesso storico. Al fine di rendere il proprio partito pronto per l’ingresso nel governo, in una memorabile intervista al Corriere del 1976, Berlinguer dichiarò di preferire la Nato al Patto di Varsavia. Ma l’accettazione formale della Nato non impedì a un partito pieno zeppo di antiamericani e di filosovietici, di mobilitarsi, pochi anni dopo, contro gli euromissili (ossia contro la risposta difensiva della Nato al dispiegamento di missili sovietici puntati contro l’Europa). L’accettazione formale coesisteva con una perdurante opposizione sostanziale.
C’è la stessa doppiezza nel rapporto fra i 5 Stelle e l’Europa. Il loro voto, nel Parlamento europeo, a favore dell’attuale Presidente della Commissione, fu la singola mossa che consentì l’alleanza fra Pd e 5 Stelle da cui nacque l’attuale governo. Ma anche in questo caso, come in quello del Pci e della Nato, l’accettazione formale dell’Europa non significa accettazione sostanziale. Come l’opposizione ai fondi Mes dimostra.
Per certi versi è più facile capire i 5 Stelle che la Lega. I 5 Stelle sono un patchwork, una combinazione delle caratteristiche di diversi «storici» movimenti populisti (argentino, peruviano, venezuelano, boliviano, brasiliano) che hanno prosperato per decenni in America Latina. Come i loro parenti latinoamericani, sono sorti per combattere la «oligarchia», i ricchi, i potenti ( le caste). Come i loro parenti, sono statalisti e giustizialisti. Le loro politiche assistenzialiste, ridistributive, a favore dei descamisados, dei poveri, consentono a chi non va molto per il sottile di definirli «di sinistra». Il loro antiparlamentarismo li accomuna a tanti movimenti del passato (non solo latinoamericani) sia di estrema sinistra che di estrema destra. Antonio Polito (ieri, sul Corriere) ha ragione quando sostiene che i 5 Stelle non hanno cambiato cultura politica, restano prigionieri del passato. L’essere condizionati dal proprio passato, del resto, vale per le persone, per ciascuno di noi. Vale anche per i gruppi politici.
Al di là delle loro contingenti divergenze tattiche Alessandro Di Battista sembra essere il figlio più somigliante al padre, al Beppe Grillo delle origini. Versione maschile, e italiana, di Evita Peròn, Di Battista sarà probabilmente il leader più adatto a guidare i 5 Stelle quando il partito (prima o poi ciò avverrà) finirà all’opposizione.
Il caso della Lega è più complesso, meno facilmente decifrabile. Nata come «sindacato» dei territori del Nord, dato il suo storico insediamento elettorale, la Lega combina diffidenza e ostilità per quello che (come tutti i populisti del mondo) chiama il Grande Capitale, con la difesa della imprenditoria media e piccola. Una difesa che l’ha anche costretta nel tempo a diluire, se non proprio a ripudiare, la sua antica vocazione giustizialista (il cappio sventolato in Parlamento tanti anni fa). Il successo leghista, come dicono i sondaggi, dipende dalle dure posizioni assunte sull’immigrazione. Poiché è quella la chiave della sua crescita elettorale, difficilmente la Lega cambierà politica su questo punto.
Il suo vero tallone d’Achille, però, è l’Europa. Al momento, come si evince da tutte le scelte di Matteo Salvini l’antieuropeismo continua a dettare banco. Ma prima o poi la Lega dovrà decidere che cosa fare da grande. Lasciamo da parte il valore autentico del cosiddetto sovranismo («facciamo da soli»). Un Paese senza i conti in ordine, un Paese indebitato fino al collo, non può permettersi alcun sovranismo. Non solo oggi, nell’epoca che viene detta (dagli ignoranti) del «liberismo». Nessun Paese senza i conti in ordine può essere davvero «sovrano». In nessun tempo e in nessun luogo.
Qui però si parla solo di tattiche politiche. Cosa deciderà di fare la Lega quando si riapriranno i giochi? Nel regime del sistema elettorale proporzionale che ci attende, chi resterà alla fine con il cerino in mano, chi sarà escluso dalla futura coalizione di governo? Se la Lega vorrà partecipare a quella partita (entrare in una futura coalizione) mandando i 5 Stelle all’opposizione, dovrà per forza cambiare radicalmente politica sull’Europa.
Resterà, è vero, la sua posizione antimigranti (particolarmente indigeribile soprattutto per il Pd). Ma è anche possibile che si possa un giorno arrivare a qualche, sia pure precario, compromesso. In fondo, si tratta di trovare una via intermedia fra due posizioni opposte e ugualmente irresponsabili e irrealistiche: il «tutti fuori» della Lega e il «tutti dentro» del Pd e di alcuni vescovi (fortunatamente non tutti). La via intermedia, ovviamente, è: alcuni dentro e alcuni fuori.
Il vero nodo da sciogliere è proprio l’Europa. Certo, per la Lega mandar giù l’Europa non comporta solo l’accettazione, senza le attuali riserve mentali, della moneta unica con tutti i vincoli connessi. Significa, sul piano ideologico e culturale, molto di più. Significa ammettere che, per lo meno in Europa, gli establishment non sono poi chissà quale iattura, significa ammettere che la «Europa dei popoli» non va da nessuna parte senza la «Europa dei banchieri». Un bel salto culturale, non c’è dubbio. Ma arriva sempre per chiunque il momento di decidere che cosa fare da grande.

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