Le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno un tratto in comune: l’assenza di una vera politica
Come il Nulla della Storia Infinita, avanza l’entropia, corrodendo le comode riserve d’ignavia di noi europei. Con urgenza sempre maggiore le democrazie e le libertà occidentali sono chiamate in questione da una «santa alleanza» di autocrazie e dittature. Il principio d’ordine che aveva governato l’uscita dal secolo scorso col miraggio d’una globalizzazione munifica e pacificatrice appare dissolto nel caos.
I droni e i missili scagliati dall’Iran contro Israele l’altra notte potrebbero essere un tassello maggiore di quel «conflitto mondiale a pezzetti» già preconizzato da papa Francesco più di dieci anni fa.
Mai, nella storia recente, il Medio Oriente è stato così prossimo a una deflagrazione totale, anche se queste sono le ore della diplomazia, nel tentativo di evitare, o almeno di mitigare e rinviare, una risposta israeliana che potrebbe, nell’ipotesi più estrema, prendere di mira i siti nei quali Teheran sviluppa il suo pericolosissimo programma nucleare. Il G7 presieduto dall’Italia dovrà subito individuare un sentiero stretto ma necessario: la vicinanza a Gerusalemme e il tentativo contestuale di rassicurarne i governanti moderandone la reazione.
E tuttavia si coglie in molta geopolitica corrente un equivoco di fondo: l’idea sballata che si stiano fronteggiando due nemici quasi equipollenti per noi. Quest’idea si basa su un doppio standard. Si ritiene plausibile un interlocutore come la Repubblica islamica iraniana che ha dal 1979, primo anno del khomeinismo, la distruzione dello Stato di Israele quale obiettivo ufficiale; si finge che i generali iraniani di Al-Quds in giro per il Medio Oriente non siano apostoli del terrorismo (e per tal motivo colpiti da Israele, certo con notevole strappo alla legalità formale, nel raid su Damasco del 1° aprile che ha causato la reazione iraniana dell’altra notte); si dà per scontato, mentre l’Iran fa sapere di ritenere «chiusa la partita», che le forze di Hezbollah mosse dall’Iran possano continuare a tirare centinaia di razzi al giorno dal Libano sul Nord d’Israele, consentendo a Teheran di tornare alla sua ambigua ostilità per interposta milizia. Soprattutto, si omette di seguire quei puntini che, icasticamente, sono i droni iraniani. Quegli stessi droni iraniani che, usati in larga misura da Putin contro Kiev, disegnano un po’ la cornice simbolica del quadro che stiamo osservando.
Esplose a un anno e mezzo di distanza, la crisi ucraina e quella mediorientale sembrano oggi il grumo di un disequilibrio che radicalizza le opinioni pubbliche e forgia le risposte (o le latitanze) dei governi. La scommessa di Putin coincide nella sostanza con quella della Guida Suprema iraniana Khamenei ben al di là delle convenienze tattiche e della vicinanza esibita dallo zar di Mosca con il cosiddetto «asse della resistenza» animato da Teheran e comprendente Hamas, Houthi, Hezbollah e «proxy» vari: dimostrare col ferro e col sangue l’inadeguatezza dei sistemi liberali a gestire i teatri di crisi d’una modernità confusa.
Dopo sei mesi di bombardamenti e blitz di terra a caccia dei miliziani di Gaza, Israele pare sempre più avviluppato in ciò che Thomas Friedman chiamava «la trappola di Hamas e Iran»: indurre, con la ferocia del pogrom del 7 ottobre, l’esercito dalla Stella di David a una reazione così dura da minare «qualsiasi simpatia Israele abbia raccolto sulla scena mondiale». Slogan antisemiti come «from the River to the Sea, Palestine will be free» (che postula la cancellazione dello Stato ebraico) o scellerate rotture tra i nostri atenei e quelli israeliani si nutrono d’un rancore montante che accomuna tutti gli ebrei a Netanyahu e viene coperto sempre dalla stessa parola magica: pace. Quella pace che nessuno chiede ad Hamas (i cui militanti continuano a stuprare le donne israeliane catturate il 7 ottobre e tuttora detenute nei tunnel) né a Teheran che l’arma e l’assiste.
Quella pace che, sul fronte europeo, tutti chiedono con fervore all’aggredito Zelensky anziché a Putin, l’aggressore. I rispettabilissimi fautori della «bandiera bianca» dovrebbero tuttavia leggere con attenzione il decreto del Sinodo ortodosso del 27 marzo, un vero proclama di «guerra santa contro l’Occidente satanista» dettato dal patriarca Kirill «alle autorità legislative ed esecutive della Russia» nel nome del Russkij Mir tanto caro a Putin: un preciso programma di espansionismo che porterebbe la Russia, caduta l’Ucraina, a spingere ancora a Ovest le sue truppe. L’Europa che conosciamo ne verrebbe stravolta dalle fondamenta.
Cosa accomuna, nel campo occidentale, lo scenario mediorientale e quello europeo? L’assenza di politica. A Gerusalemme un premier screditato, ostaggio della destra messianica, non è riuscito a immaginare un «dopo» con un credibile interlocutore palestinese per mostrare al mondo che su Gaza non è in corso una guerra di religione ma una battaglia tra una prima linea della democrazia e una prima linea delle autocrazie: lo scontro con Teheran è anche corollario di questa incapacità. A Bruxelles e nelle nostre cancellerie si marcia verso le elezioni di giugno e verso il nostro «dopo» in ordine sparso: quasi non sapessimo che non ci si potranno permettere quattro o cinque mesi di paralizzanti trattative per individuare i nuovi presidenti della Commissione e del Consiglio mentre Putin tenta l’affondo finale su Kiev e magari il suo vecchio amico Trump torna alla Casa Bianca. L’entropia è dietro l’angolo. Per chi ancora crede che la democrazia sia il peggiore dei sistemi possibili eccetto tutti gli altri, è il momento di svegliarsi.
I droni e i missili scagliati dall’Iran contro Israele l’altra notte potrebbero essere un tassello maggiore di quel «conflitto mondiale a pezzetti» già preconizzato da papa Francesco più di dieci anni fa.
Mai, nella storia recente, il Medio Oriente è stato così prossimo a una deflagrazione totale, anche se queste sono le ore della diplomazia, nel tentativo di evitare, o almeno di mitigare e rinviare, una risposta israeliana che potrebbe, nell’ipotesi più estrema, prendere di mira i siti nei quali Teheran sviluppa il suo pericolosissimo programma nucleare. Il G7 presieduto dall’Italia dovrà subito individuare un sentiero stretto ma necessario: la vicinanza a Gerusalemme e il tentativo contestuale di rassicurarne i governanti moderandone la reazione.
E tuttavia si coglie in molta geopolitica corrente un equivoco di fondo: l’idea sballata che si stiano fronteggiando due nemici quasi equipollenti per noi. Quest’idea si basa su un doppio standard. Si ritiene plausibile un interlocutore come la Repubblica islamica iraniana che ha dal 1979, primo anno del khomeinismo, la distruzione dello Stato di Israele quale obiettivo ufficiale; si finge che i generali iraniani di Al-Quds in giro per il Medio Oriente non siano apostoli del terrorismo (e per tal motivo colpiti da Israele, certo con notevole strappo alla legalità formale, nel raid su Damasco del 1° aprile che ha causato la reazione iraniana dell’altra notte); si dà per scontato, mentre l’Iran fa sapere di ritenere «chiusa la partita», che le forze di Hezbollah mosse dall’Iran possano continuare a tirare centinaia di razzi al giorno dal Libano sul Nord d’Israele, consentendo a Teheran di tornare alla sua ambigua ostilità per interposta milizia. Soprattutto, si omette di seguire quei puntini che, icasticamente, sono i droni iraniani. Quegli stessi droni iraniani che, usati in larga misura da Putin contro Kiev, disegnano un po’ la cornice simbolica del quadro che stiamo osservando.
Esplose a un anno e mezzo di distanza, la crisi ucraina e quella mediorientale sembrano oggi il grumo di un disequilibrio che radicalizza le opinioni pubbliche e forgia le risposte (o le latitanze) dei governi. La scommessa di Putin coincide nella sostanza con quella della Guida Suprema iraniana Khamenei ben al di là delle convenienze tattiche e della vicinanza esibita dallo zar di Mosca con il cosiddetto «asse della resistenza» animato da Teheran e comprendente Hamas, Houthi, Hezbollah e «proxy» vari: dimostrare col ferro e col sangue l’inadeguatezza dei sistemi liberali a gestire i teatri di crisi d’una modernità confusa.
Dopo sei mesi di bombardamenti e blitz di terra a caccia dei miliziani di Gaza, Israele pare sempre più avviluppato in ciò che Thomas Friedman chiamava «la trappola di Hamas e Iran»: indurre, con la ferocia del pogrom del 7 ottobre, l’esercito dalla Stella di David a una reazione così dura da minare «qualsiasi simpatia Israele abbia raccolto sulla scena mondiale». Slogan antisemiti come «from the River to the Sea, Palestine will be free» (che postula la cancellazione dello Stato ebraico) o scellerate rotture tra i nostri atenei e quelli israeliani si nutrono d’un rancore montante che accomuna tutti gli ebrei a Netanyahu e viene coperto sempre dalla stessa parola magica: pace. Quella pace che nessuno chiede ad Hamas (i cui militanti continuano a stuprare le donne israeliane catturate il 7 ottobre e tuttora detenute nei tunnel) né a Teheran che l’arma e l’assiste.
Quella pace che, sul fronte europeo, tutti chiedono con fervore all’aggredito Zelensky anziché a Putin, l’aggressore. I rispettabilissimi fautori della «bandiera bianca» dovrebbero tuttavia leggere con attenzione il decreto del Sinodo ortodosso del 27 marzo, un vero proclama di «guerra santa contro l’Occidente satanista» dettato dal patriarca Kirill «alle autorità legislative ed esecutive della Russia» nel nome del Russkij Mir tanto caro a Putin: un preciso programma di espansionismo che porterebbe la Russia, caduta l’Ucraina, a spingere ancora a Ovest le sue truppe. L’Europa che conosciamo ne verrebbe stravolta dalle fondamenta.
Cosa accomuna, nel campo occidentale, lo scenario mediorientale e quello europeo? L’assenza di politica. A Gerusalemme un premier screditato, ostaggio della destra messianica, non è riuscito a immaginare un «dopo» con un credibile interlocutore palestinese per mostrare al mondo che su Gaza non è in corso una guerra di religione ma una battaglia tra una prima linea della democrazia e una prima linea delle autocrazie: lo scontro con Teheran è anche corollario di questa incapacità. A Bruxelles e nelle nostre cancellerie si marcia verso le elezioni di giugno e verso il nostro «dopo» in ordine sparso: quasi non sapessimo che non ci si potranno permettere quattro o cinque mesi di paralizzanti trattative per individuare i nuovi presidenti della Commissione e del Consiglio mentre Putin tenta l’affondo finale su Kiev e magari il suo vecchio amico Trump torna alla Casa Bianca. L’entropia è dietro l’angolo. Per chi ancora crede che la democrazia sia il peggiore dei sistemi possibili eccetto tutti gli altri, è il momento di svegliarsi.