22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

Ci sono passaggi che non determinano un cambio d’epoca, ma lo riassumono in pochi giorni. Riletto tra qualche anno, il G7 della Cornovaglia potrebbe essere uno di quelli e non solo perché — fra mille distinguo europei — il vertice ha indicato nella Cina il nuovo avversario delle democrazie avanzate. Meno esplicita, ma più condivisa, è la fine del consenso del 1989: la certezza, trionfante alla fine della guerra fredda, che il mercato lasciato a se stesso avrebbe garantito l’equilibrio sociale e il primato geopolitico dell’Occidente e che per questo bastava affidarsi alle scelte incontrastate delle imprese. Anche quando puntano sul basso costo e delocalizzano, non investono a sufficienza o alimentano un carosello di paradisi fiscali per arrivare a aliquote fiscali risibili. Il cambio d’epoca Da sinistra, Joe Biden e Xi Jinping Da sinistra, Joe Biden e Xi Jinping Dopo il passaggio di Joe Biden dalla Cornovaglia, quel consenso è in pezzi. E lo è in un contesto non populista, non sciovinista, ma moderato. Le conseguenze economiche di questo G7 potrebbero dunque rivelarsi profonde e del tutto volute dal presidente degli Stati Uniti anche per l’Europa (la quale in realtà sta già cercando di imboccare la stessa strada). Gli alleati lavoreranno per assicurarsi nuove catene del valore industriali – e proteggere le vecchie – limitando una dipendenza dalla Cina ormai giudicata pericolosa. Biden è arrivato sulla costa inglese pochi giorni dopo aver ricevuto un rapporto di oltre 250 pagine commissionato al suo assistente per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e al primo consigliere economico, Brian Deese. È un quadro della situazione degli Stati Uniti in quattro filiere strategiche: semiconduttori, batterie per i motori elettrici, minerali e materiali d’importanza critica (incluse le terre rare), oltre ai farmaci e ai principi attivi farmaceutici. La conclusione è che serve una strategia di governo – inclusi sussidi per oltre cento miliardi di dollari – per spezzare la dipendenza dell’Occidente dalla Cina e rivitalizzare il manifatturiero alla frontiera tecnologica. Nel rapporto la contestazione nei confronti di Pechino è diretta: «La Cina emerge per l’uso aggressivo di misure – molte delle quali ben fuori dalle pratiche commerciali accettate nel mondo – per catturare quote di mercato globale nelle catene del valore d’importanza critica». Del resto nell’ordine esecutivo che ha chiesto il rapporto cento giorni fa, Biden aveva citato un antico proverbio: «”Per mancanza di un chiodo, fu perso un ferro di cavallo. Per mancanza del ferro, fu perso l’intero cavallo”. E così via, finché l’intero regno fu perso. Piccole mancanze anche in un solo punto delle catene del valore possono colpire la sicurezza dell’America, i posti di lavoro, le famiglie e le comunità». La frontiera dei chip A partire dal settore oggi più in tensione: i semiconduttori integrati ormai in ogni telefono, auto, sistema d’arma e nelle reti dell’intelligenza artificiale. Lo studio dei consiglieri di Biden constata che in trent’anni la quota americana del mercato dei chip è scesa dal 37% al 12%. L’America è rimasta indietro anche sulla frontiera dei chip più efficienti, quelli da sette, cinque o tre nanometri (milionesimi di millimetri) necessari agli usi più strategici. La Tsmc produce il 92% delle forniture mondiali di questi semiconduttori da Taiwan, uno Stato non riconosciuto da Pechino come indipendente e potenzialmente esposto in ogni momento a un’invasione. Costruire una sola fabbrica d’avanguardia per produrre questi chip può costa 20 miliardi di dollari, ma da 2014 la Cina sta investendo senza risparmio. Il rapporto commissionato da Biden stima sussidi pubblici del regime (formalmente) comunista per oltre 200 miliardi. Alle imprese beneficiate non è chiesto un equilibrio economico. Gli ingeneri specializzati vengono attratti dalla Corea del Sud o da Taiwan con offerte di salari quintuplicati se accettano di trasferirsi in Cina. La reazione raccomandata dai consiglieri di Biden è netta: almeno 50 miliardi di dollari di sussidi federali al settore americano dei chip e una stretta collaborazione industriale con gli europei. Il controllo dei materiali Preoccupata è anche l’analisi di Sullivan e Deese sui materiali e i minerali necessari in tutte le tecnologie decisive di questi anni. La Cina è il solo Paese al mondo che controlli completamente tutti gli stadi della catena del neodimio, un metallo appartenente al gruppo delle terre rare che è presente in hard disk, motori automobilistici, turbine a vento, missili teleguidati o macchine per la risonanza magnetica. Il rapporto raccomanda un’indagine federale sulle condizioni di lavoro e sui livelli di inquinamento grazie ai quali Pechino fa produrre questo materiale. La Cina però – si legge – controlla anche il 55% della capacità mondiale di estrazione delle terre rare in genere e l’85% della loro (inquinante) raffinazione. Il dominio della Cina è poi altrettanto vasto, anche nelle miniere del Congo o dello Zambia, sul cobalto necessario alle turbine a gas e nei motori degli aerei o nel litio delle batterie per auto elettriche. Qui la reazione della Casa Bianca prevede dazi contro i produttori che non rispettano gli standard ambientali. Proprio le batterie ad alta capacità, oggi in gran parte di fabbricazione cinese, sono l’altro grande tallone d’achille. Su questo la Casa Bianca propone di investire 50 miliardi di denaro pubblico.

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