Fonte: Corriere del Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Domenica il Pd non è riuscito a pescare voti fuori dal suo serbatoio, l’opposto di quello che dovrebbe fare un eventuale Partito della Nazione. È un risultato deludente che non nasce il 5 giugno
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare. Per cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a sinistra — così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano, presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act, poi il Migration compact, adesso si annuncia un Social act: ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact, dicevo, ha ricevuto un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo avanti. Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» — peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd — gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere.
Per cambiare il Paese — come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza — non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è.