Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Giaordano
Da lunedì gli insegnanti e il personale scolastico saranno la nuova prima linea. Insieme a loro, otto milioni di alunni e alunne su cui pesa lo stigma dell’asintomaticità verranno sottoposti a uno stress psicologico diverso, non necessariamente più lieve, dal momento che hanno capito benissimo di poter essere i vettori del virus verso genitori e nonni.
Se finora abbiamo potuto mantenere degli interstizi di sicurezza rispetto agli altri, stabilire il nostro livello confortevole di isolamento, da lunedì sarà molto più difficile farlo, se non impossibile. L’inizio delle scuole riempirà quegli interstizi fra cittadini come una colata di resina, ci renderà tutti istantaneamente più esposti al contagio.
Nelle simulazioni sulla fase 2 del comitato tecnico scientifico, quelle del maggio scorso, la scuola veniva disaccoppiata dal resto delle variabili perché da sola faceva saltare Rt sopra la soglia critica di uno (lo è già, sopra uno, ma per nostra negligenza prescolastica). È l’ennesimo paradosso della pandemia: la scuola va riaperta perché è il tessuto connettivo della società, ma essere il tessuto connettivo della società è la ragione per cui ci spaventa tanto aprirla.
Ribadire i rischi non contraddice la convinzione che quello di lunedì sia un appuntamento imprescindibile. Che la didattica sia infine mista, intermittente, scaglionata o ridotta, quegli otto milioni di allievi hanno bisogno urgente di una classe con cui avere scambi, di docenti in presenza, e di un’aula fisica da immaginare anche quando sono altrove.
I due aspetti, pericolo e necessità, vanno dunque considerati insieme. Lo slogan che si è imposto, «riaprire in sicurezza», è quanto mai inappropriato in tal senso. Peggio, è controproducente, perché dà a chi ci crede l’impressione fasulla che la salvaguardia possa venire dall’organizzazione scolastica in sé. La sicurezza non è mai tale in un’epidemia. E l’efficienza — il massimo a cui possiamo puntare — è una combinazione difficile di protocolli, infrastrutture e responsabilità personali.
L’interazione fra il livello individuale e quello collettivo è stato il segno distintivo dell’epidemia fin dal principio: uno necessita dell’altro, uno rimanda all’altro, in continuazione. Dopo una primavera di emergenza e un’estate confortevole, ci apprestiamo quindi, con ogni probabilità, a un autunno subacuto. È un’altra fase inedita ed è essenziale trovare anche per questa la disposizione mentale adeguata, singolarmente e come comunità.
Forse, arrivati a questo punto, quella disposizione va cercata nella nostra gestione della paura. C’è stato un momento, a marzo e aprile, in cui la paura è stata salvifica. Ha impedito che sottovalutassimo ulteriormente una minaccia già sottovalutata e ci ha tenuto fermi, a dispetto di tutto. In quelle settimane la paura non era soltanto utile: era giustificata dal fatto di non conoscere l’entità dell’evento in cui eravamo capitati.
Non sapevamo il numero reale dei contagiati e le stime a spanne erano preoccupanti, non conoscevamo il decorso della malattia, né come quando se ne saremmo usciti; ogni giorno saltava fuori un nuovo meccanismo sospetto di trasmissione.
La situazione attuale non è un po’ diversa, un po’ migliore, ma radicalmente diversa e radicalmente migliore. Oggi siamo, in due parole, consapevoli e attrezzati.
Nel nuovo contesto, dovremmo smettere di avere paura non perché il virus sia meno insidioso, ma perché la paura ha smesso di essere l’emozione più vantaggiosa.
Mi rendo conto di parlarne come se potessimo scegliere le nostre reazioni a piacimento. Non è così, nessuno di noi sa essere puramente emotivo o puramente razionale, nemmeno gli esperti, anche se abbiamo voluto illudercene a lungo. La paura individuale è un territorio che va rispettato e trattato con la massima compassione, sempre. Per questo l’ondata di sdegno delle settimane scorse contro gli insegnanti irreperibili è stata odiosa. Si è trattato, sotto sotto, di un rigurgito rabbioso di stereotipi, quando dietro le schermaglie e le irreperibilità ci sono a volte storie personali che non conosciamo, parenti anziani o infermi, o anche solo un timore puro, senza causa o costrutto, e proprio per questo ancora più difficile da sconfiggere.
Il coronavirus è particolarmente infido in questo, a causa della sua assoluta variabilità di espressione: qualcuno può non accorgersi di averlo e qualcun altro, magari di molto vicino, può morirne. Ha tratto fantasmatico spiccato, e i fantasmi, si sa, terrorizzano. Mentre negoziamo con le nostre ansie e i nostri presagi, possiamo pensare di incidere più programmaticamente sulla paura collettiva, su quella temperie in cui s’innesta la sensibilità di ognuno. I media e la politica in primis, e giù a cascata su ogni strato della società; dalle piccole accortezze estetiche — come evitare, magari, quelle inquietanti mascherine nere — fino allo scrupolo nella comunicazione.
Se a partire da lunedì ogni focolaio acceso a scuola si guadagnerà un titolo a caratteri cubitali, «TUTTI CONTAGIATI A», «ISOLATA LA SCUOLA DI»; se cominceremo con gli allarmi per questo e quello, l’anno scolastico sarà un travaglio. Verremo assordati dalle sirene e nessuno degli otto milioni di studenti riuscirà a concentrarsi sulle lezioni.
Meglio dircelo adesso allora, saperlo già: i focolai ci saranno, è probabile che saranno molti eppure non è detto che siano troppi. Ovvero: troppi in relazione alla totalità delle classi, delle scuole e della popolazione scolastica italiana, troppi rispetto alla capacità del sistema di monitorare e intervenire e assorbire.
Una classe in quarantena o una scuola intera, o dieci scuole o anche cinquanta andranno pensate al cospetto di quegli otto milioni di studenti e della capacità del sistema sanitario pubblico. E se qualche linea di trasmissione inaugurata in aula condurrà a un esito tragico, dovremo avere la freddezza di valutare anche questo sulla scala complessiva.
Tutti gli ambiti della nostra esistenza si svolgono dentro un’incertezza statistica, ma avviene per lo più implicitamente, mentre adesso ce ne rendiamo conto. Il nostro cervello, per sua natura, è portato a ingigantire le anomalie, a non pensare in termini corretti dal punto di vista statistico; i media e politici, per lo più, rintuzzano questa sproporzione. Ecco, entriamo in una fase in cui sarebbe più assennato non farlo. In cui dovremmo sforzarci tutti verso una visione più oggettiva, tenere a mente che siamo dei singoli cittadini un po’ spaventati immersi in un sistema ampio, che regge fino a prova contraria.
E fintanto che il livello di rischio non sarà significativo complessivamente, dovremo andare avanti, fare tutte le cose del vivere, dentro e fuori dalla scuola, reprimendo i fiotti di angoscia e i sensazionalismi.
Non abbiamo scelta.
Chi pensa di aspettare il vaccino fa una scommessa ancora più azzardata. Perché il vaccino esiste solo quando esiste davvero, ed è stato testato adeguatamente, prodotto, distribuito. L’affidamento che ci stanno facendo il governo, gli esperti e noi con loro è non solo eccessivo ma, allo stato attuale, immotivato. Soprattutto quando abbiamo un presente a cui dare forma subito. Individuale e collettivo. Emotività e raziocinio. Vita e vigilanza. Non sbandare più fra la strafottenza e l’avvilimento, non sminuire e non ingigantire. Considerarci parte di una popolazione anche in senso statistico. È un esercizio di equilibrio funambolico in cui avremmo preferito non doverci esibire affatto, ma tant’è.
Da lunedì si va in scena sul serio. I bambini e i ragazzi, silenziosamente e con fiducia innata, ci guarderanno.