I dati parlano chiaro: mortalità ridotta nonostante la scarsa diffusione dei vaccini. La protezione offerta dalla giovane età media è una certezza, forse ha contribuito l’esposizione la malaria
In mezzo a tante ragioni d’inquietudine la pandemia regala una sorpresa positiva. L’ecatombe da Covid nell’Africa subsahariana, annunciata regolarmente da quasi due anni, non è mai cominciata e forse non accadrà mai. Di Covid si muore di più in Italia che nei Paesi più poveri del pianeta, benché il loro accesso ai vaccini sia scandalosamente basso.
La spiegazione scientifica è limpida: la giovanissima età media li protegge, quasi quanto il vaccino.
È una buona notizia che non andrebbe nascosta. E non valgono sotterfugi per minimizzarla. Fanno testo le statistiche raccolte nella banca dati Our World in Data. In Italia — che purtroppo si colloca nella fascia alta della media occidentale — la pandemia ha provocato 229 morti ogni centomila abitanti, in Uganda sette decessi su centomila persone, in Nigeria due. La rassegna dei Paesi africani riserva la stessa piacevole scoperta, la mortalità varia dai 15 decessi su centomila abitanti in Gambia e Gabon, ai due del Burkina Faso. In mezzo a questi elenchi si celano molte tra le nazioni più povere del pianeta. Alle quali siamo soliti rivolgere un’attenzione tanto compassionevole quanto ideologica, distratta e stereotipata.
L’Africa, lo abbiamo deciso da tempo, deve fare notizia solo per le sue tragedie. Ci interessa in quanto epicentro della miseria e sofferenza umana, continente devastato da conflitti armati e guerre civili, nuova frontiera del jihadismo, terra di conquista per il neo-colonialismo occidentale o più di recente cinese, bacino di migranti disperati, con l’aggiunta delle prossime ondate migratorie legate alle catastrofi climatiche.
In questo scenario cupo e desolato, quando è iniziata la pandemia abbiamo «deciso» che, ovviamente, avrebbe inflitto danni assai maggiori al continente nero. È scattato il riflesso pavloviano di noi occidentali, l’automatismo umanitario del senso di colpa. Poiché i vaccini — almeno quelli che funzionano — sono prodotti in Occidente e soprattutto in America, la nuova ecatombe africana sarebbe stata l’ennesima macchia sulle nostre coscienze. Una strage provocata dall’egoismo dei ricchi. Perché non è andata così?
La disparità di accesso ai vaccini esiste; è innegabile e imperdonabile. I dati elaborati da Banca mondiale e Oxford University, riassunti in un’analisi del settimanale The Economist, dicono che nei Paesi dal reddito medio o medio-alto, cioè sopra i 4.000 dollari annui di Pil pro capite, sono già stati somministrati 160 vaccini ogni cento abitanti, cioè più di una dose e mezza a testa. Questa media include ovviamente bambini piccoli non soggetti all’inoculazione, altre persone non vaccinabili, e l’area no vax. Nei Paesi più poveri del pianeta, quelli sotto i mille dollari di Pil pro capite, i vaccini inoculati sono solo dodici ogni cento persone. Cioè meno di un decimo.
Questo conferma l’insuccesso di Covax, l’iniziativa promossa dall’Onu e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per distribuire ovunque le immunizzazioni. Per la verità il fiasco non è solo una conseguenza dell’egoismo dei ricchi. Un ostacolo serio riguarda la distribuzione e la logistica. I vaccini più efficaci made in Usa spesso richiedono una conservazione a bassissime temperature, che è problematica in aree subsahariane dove la corrente elettrica scarseggia. Per ogni dollaro di costo del vaccino, tocca spendere altri cinque dollari nel trasporto e conservazione fino al destinatario finale. Bisogna infine fare i conti con un’area no vax che è perfino più estesa nei Paesi poveri. Nell’Africa occidentale solo il 39% della popolazione è disposta a farsi inoculare: intervengono antichi pregiudizi e diffidenze verso la medicina occidentale, o verso i governi locali che la sponsorizzano.
Ma lo scarso accesso ai vaccini non è stato così letale come si temeva. Di fronte ai dati sulla bassa mortalità, molti occidentali storcono il naso: poiché la realtà non coincide con i nostri pregiudizi, allora le statistiche devono essere false. È plausibile che i Paesi più arretrati siano meno efficienti di noi nel censire i decessi da Covid. C’è però un sistema collaudato per aggirare questa lacuna, è la misurazione delle «morti in eccesso» a cui ricorre The Economist. Lo scarto dalla media dei decessi annui, tra il 2020-2021 e l’era pre-Covid, ci dà indicazioni attendibili e sicure. Questa misurazione ineccepibile conferma che la strage africana non è mai avvenuta, anzi la pandemia è stata più benigna a Sud del Sahara. La spiegazione sta nell’età media di quelle popolazioni: è di 20 anni, contro i 43 dell’Unione europea. La prorompente vitalità demografica, che abbiamo spesso considerato come una delle piaghe africane, in questo caso rivela un rovescio positivo.
Alcuni scienziati aggiungono una spiegazione complementare: i Paesi più esposti alla malaria potrebbero aver sviluppato anche altre forme di parziale immunità contro il Covid. Quest’ultima rimane un’ipotesi da dimostrare; mentre la protezione offerta dalla giovane età è una certezza. Anche perché del Covid muoiono più spesso persone affette da altre patologie come obesità e diabete, più diffuse in età avanzata. La giovinezza è servita da scudo, supplendo ad altre carenze africane.
In questo quadro anche l’egoismo sanitario dei Paesi ricchi è più razionale di quanto appaia: i vaccini sono andati in priorità alle zone fragili, che stavolta coincidono con le aree ricche del pianeta. Opulenza e vulnerabilità vanno di pari passo, di fronte al Covid. Anche se rimane l’eccezione meravigliosa di un Giappone ancora più vecchio di noi e tuttavia capace di mantenere una mortalità «africana» (è un complimento).
Questo non deve esimerci da nuovi sforzi per una diffusa distribuzione planetaria dei vaccini. Qualche scrutinio supplementare andrebbe esercitato su quelle burocrazie internazionali come l’Oms a cui deleghiamo la missione. Ma la sorpresa positiva dall’Africa racchiude una lezione per noi. Gli automatismi umanitari che ci hanno fatto velo sono, in fondo, l’ultimo retaggio neocoloniale. Per assuefazione, per pigrizia mentale, siamo allenati a pensare che tutto ciò che accade nel mondo dipende da noi. Ci consideriamo l’ombelico dell’universo e il motore della storia, anche se da tempo non lo siamo. In questo caso il «mea culpa» delle coscienze occidentali è scattato a prescindere dai fatti, e ci siamo fustigati per una tragedia mai avvenuta.