Fonte: Corriere della Sera
di Carlo Verdelli
Tutte le emergenze si ammassano indistinte e irrisolte, e si registra un ulteriore passo avanti nell’unico distanziamento dannoso in tempi di pandemia: quello tra i rappresentati e i rappresentanti, tra i cittadini e gli eletti
Prendiamo Milano. Da domenica è in zona rossa ma il traffico, la gente per strada, i rumori non sono quelli di una città chiusa per virus. Come se le direttive stabilite da chi ha il diritto e soprattutto il dovere di imporle valessero molto meno di quando, per esempio a primavera, i lockdown erano una cosa seria e le città, non solo Milano, si svuotavano per davvero. La crisi di governo che stiamo attraversando è anche una crisi di credibilità, come se l’autorità avesse perso via via autorevolezza.
E al di là degli esiti parlamentari di questo imbuto, dove tutte le emergenze del Paese sono precipitate e si ammassano indistinte e irrisolte, si registra con evidenza un ulteriore passo avanti nell’unico distanziamento dannoso in tempi di pandemia: quello tra i rappresentati e i rappresentanti, tra i cittadini e gli eletti, tra la politica e la società. Un distanziamento che riguarda la maggioranza, ormai variabile, ma anche l’opposizione, variamente urlante, con i banchi di Camera e Senato che diventano teatro di uno scontro verbale consumato in una lingua incomprensibile, in un momento inconcepibile, al cospetto e nel nome di un Paese che sta altrove, giustamente angosciato e pochissimo coinvolto.
Dovremmo avere una certa dimestichezza con momenti del genere, una specie di immunità ereditaria, visto che la nostra Repubblica sembra instabile per costituzione (con la «c» minuscola): 66 governi in 75 anni, come hanno ricordato Milena Gabanelli e Simona Ravizza su questo giornale, radiografando il male oscuro di un sistema che invecchia senza maturare, afflitto da un’incapacità ormai cronica di darsi una visione e perseguirla nel tempo. Per ogni frattura si cerca un colpevole, e stavolta tocca a Renzi, come se eliminando il reprobo la convalescenza fosse garantita. L’ennesima rottamazione del capo di Italia viva, anche questa volta ai danni di un corpo di cui faceva parte, è però un sintomo, non la radice della malattia. «La democrazia è preziosa e fragile», ha detto Joe Biden nel suo discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti. Ma gestire i disaccordi, senza ogni volta far saltare il banco, è una lezione che fatichiamo storicamente a imparare.
C’è comunque una differenza sostanziale rispetto al passato, lontano o recentissimo: noi governati non siamo mai stati in condizioni più critiche, e cresce il rischio di una sfiducia più diffusa e più acuta verso chi dovrebbe guidarci fuori da una tempesta perfetta, dove il flagello del virus fa da detonatore a una sommatoria di questioni infiammabili, dal cui esito dipende il nostro futuro come nazione. L’Europa ci chiede, e in fretta a questo punto, un piano credibile per accedere da primi beneficiari (208 miliardi contro i 162 della Spagna o i 27 della Germania) ai fondi indispensabili per la ricostruzione post coronavirus, già per noi viziata in partenza dal peso di un debito pubblico in crescita insostenibile. La campagna dei vaccini procede ma si prevedono tempi lunghi, sia per difficoltà nella programmazione sia per la concorrenza non proprio leale di nazioni più ricche (d’altronde anche il neo assessore lombardo alla Sanità Letizia Moratti, che aveva proposto la precedenza alle regioni maggiormente produttive, salvo successiva smentita, non brillava per spirito di equità). Monta la rabbia sociale per la povertà crescente, l’insofferenza giovanile per la scuola forzatamente in assenza, lo sconforto di un ceto medio diventato improduttivo.
Lo sconforto, ecco, è forse il sentimento nazionale più diffuso. Come quello, una voce tra milioni, di una quarantenne con due figli in coda per il pacco di cibo, chilometri di coda ogni giorno, a Milano, da Pane quotidiano: «Facevo le pulizie, con il Covid ho perso il lavoro. La crisi di governo? Per noi non cambia niente». Per noi non cambia niente: cinque parole che dovrebbero dire tanto a protagonisti e comprimari del salto nel vuoto che si sta preparando. Aperta la crisi, il difficile sarà chiuderla, e come, con chi. Il tempo non ci aspetta, la Comunità Europea ancora meno. Sconvolto da più di 80 mila morti, impoverito dalla chiusura di oltre 70 mila imprese, terrorizzato dalla fine imminente del blocco dei licenziamenti, il famoso Paese reale non chiede miracoli ma almeno di capire che cosa succederà adesso. La brutta politica risponde imbucandosi in un gorgo di parole, di cui arrivano confusi echi, promesse su tutto e per tutti, bassezze indecenti (la peggiore su Liliana Segre), traffici nebbiosi per un voto in più (o uno in meno al nemico): una zuffa indecifrabile dalla quale emerge chiara soltanto la sensazione palpabile di un distacco aumentato dalle tante Italia in codice rosso.
La democrazia ha un ampio perimetro ma confini netti. Può contenere gli opposti, a condizione che rispettino le linee di demarcazione fissate in maniera indelebile dalla nostra Carta costituzionale. Il governo denominato Conte I, quello con Cinquestelle e Lega, qualche salto oltre la linea l’ha tentato, e per questo uno dei suoi leader è a processo (il capo d’accusa è sulla violazione dei diritti civili dei migranti, tema di nessuna attualità, specialmente in questa crisi). Il governo Conte II, con il Pd al posto della Lega, il più bello del mondo (sintesi sarcastica dell’ex premier Renzi), si è trovato a gestire una pandemia infernale, si è guadagnato il rispetto del mondo per l’argine che ha saputo opporre alla prima ondata, ma ha forse abbassato la guardia troppo presto. Il ragionevole sospetto è che sulla seconda ondata pesino anche le elezioni regionali di metà settembre: nessuno voleva intestarsi divieti che la gente, come l’estate allegra aveva dimostrato, mal sopportava o impunemente infrangeva. La destra spingeva per il «liberi tutti», l’esecutivo non ha voluto regalare voti pesanti al campo avverso e silenziosamente si è accodato. Il conto, in termini di contagi e decessi, non abbiamo ancora finito di pagarlo. Assecondare gli umori della piazza, fomentarli come d’abitudine usano fare dovunque i sovranisti, è una scorciatoia che garantisce incassi nel breve ma sconquassi durevoli. Ricostruire una credibilità, anche ai tavoli internazionali, richiede fatica e cura; per distruggerla, invece, basta un po’ di propaganda, che è lo spaccio di finte verità, e dosi massicce di disinvoltura istituzionale.
Mentre il premier Conte cerca una difficile sopravvivenza per il suo governo, con numeri però al momento ancora esigui per sostenere il peso di scelte strategiche, la buona politica, quella dell’avvicinamento ai bisogni dei cittadini e del distanziamento dagli sfascismi, fiorisce qua e là sui territori, ma fatica ad attecchire proprio là dove ce ne sarebbe più bisogno: Roma capitale, sede del Parlamento, la vera casa degli italiani. Per immaginare un’uscita sensata da questa crisi, si dovrebbe cominciare a trapiantarla a forza, questa buona politica. Un giardiniere ci sarebbe, il presidente Mattarella, ma bisogna sbrigarsi: dal 3 agosto, inizio del semestre bianco, si metterà in aspettativa. E come arriveremo al 3 agosto è una scommessa che gli allibratori nemmeno quoterebbero, tanto è incerta.