Fonte: La Stampa
di Alessandro Barbera
Il nostro Paese penalizzato da infrastrutture, disoccupazione giovanile e qualità della scuola
Immaginate una classifica dei trenta Paesi più ricchi del mondo con cui misurare insieme qualità delle istituzioni, opportunità d’impresa e sicurezza sociale. L’ha fatta il World Economic Forum, e l’Italia ne esce male, appena ventisettesima. Si chiama “Inclusive Growth and Development Report”: nell’era dei populismi, delle diseguaglianze e della stagnazione secolare occorre aggiornare le parole d’ordine. All’ultimo G20 i cinesi hanno lanciato il mantra della globalizzazione inclusiva, un messaggio che sarà fatto proprio anche dal G7 made in Italy. La “crescita inclusiva” è da qualche anno il concetto chiave al Forum di Davos, l’appuntamento più atteso dalla politica e finanza mondiale che inizia domani fra le montagne svizzere.
La classifica per il 2017 è il trionfo di quelle che una volta chiamavamo le socialdemocrazie nordiche. L’indice di “sviluppo inclusivo” incorona come migliore fra le vecchie economie ricche la Norvegia, seguita da Lussemburgo, Svizzera, Islanda, Danimarca e Svezia. Oggi quei Paesi vincono per ragioni in parte diverse da quelle che negli anni settanta e ottanta ne facevano un modello. Non solo perché si tratta di Paesi con (ancora) i migliori standard di sicurezza sociale, ma perché nel frattempo sono diventate economie dinamiche e in grado di attrarre capitali esteri. Educazione, servizi di base, infrastrutture, livello di corruzione, lavoro. Ad eccezione di Australia e Nuova Zelanda (rispettivamente ottava e nona) i primi dodici Paesi con il miglior mix di sviluppo imprenditoriale e sicurezza sociale sono tutti a nord delle Alpi. La Germania è tredicesima, la Francia diciottesima, la Spagna ventiseiesima seguita dall’Italia. Fanno peggio di noi Portogallo, Grecia e Singapore. Fuori dalla classifica dei trenta Paesi Ocse – con un indice a parte – svettano la Lituania, l’Azerbaijan, Ungheria, Polonia e Romania.
Il capitolo dedicato all’Italia è un concentrato di problemi noti: fatta eccezione per alcuni parametri, il Belpaese risulta molto spesso in coda alla classifica. Ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. Talvolta emergono forti contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa ma i diritti di chi lavora sono piuttosto tutelati. Siamo undicesimi al mondo per numero di possessori di prima casa, ma anche per la pressione fiscale sulla proprietà immobiliare.
Qua e là emergono aree di eccellenza, più o meno note: tredicesimi per i costi necessari ad avere una linea a banda larga fissa, undicesimi nei test Pisa di matematica, ottavi nella spesa sanitaria in percentuale al Pil, quarti nel garantire una buona aspettativa di vita a tutti i cittadini, ricchi e poveri. Al di là della qualità della spesa, siamo il settimo Paese fra quelli che spendono di più per la sicurezza sociale, il primo nel garantire la sanità pubblica a tutti.
Per i giorni di assenze dal lavoro per maternità siamo quarti al mondo, settimi per i giorni di congedo parentale, ancora settimi per “densità sindacale”, ovvero per il numero di sindacalisti in percentuale ai lavoratori attivi. Nella classifica a trenta siamo al nono posto per la percentuale di lavoratori garantiti da contratti di lavoro collettivo. Una buona notizia per chi vive al Sud (dove il costo della vita è più basso) non un grande viatico per chi crede in un sistema più inclusivo e meritocratico: siamo ultimi per salari legati alla produttività, penultimi nel tasso di partecipazione delle donne al lavoro, terzultimi per tasso di occupazione giovanile.