16 Settembre 2024

Una ripresa spontanea e disordinata non è in grado di ricomporre le profonde spaccature che attraversano il Paese: territoriali, sociali e culturali

La buona notizia è che da tre anni il Pil italiano cresce più velocemente di quello degli altri Paesi europei. La cattiva notizia è che questo risveglio avviene al di fuori di un disegno chiaro e condiviso. Una crescita spontanea e disordinata, e perciò incapace di ricomporre le profonde spaccature che attraversano il Paese: territoriali (nord/sud, aree interne/centrali), sociali (giovani/vecchi, garantiti/precari) e culturali (uomini/donne, autoctoni/immigrati). La confusione sul Pnrr ne è la più chiara attestazione. Fratture che si sono approfondite nei dieci anni di governo a trazione Pd e che l’attuale azione di governo non sembra in grado di ricomporre.
All’origine di questa scomposizione c’è la progressiva erosione del ceto medio, consolidatosi nel momento in cui si generalizzava l’accesso al benessere. Da allora la struttura sociale è andata sotto stress, con una crescente divaricazione dei destini personali che non ha prodotto lotta di classe, ma un disagio diffuso che ha alimentato l’astensionismo e il populismo. Così che, col tempo, l’Italia (e non solo) si è trasformata in un Paese polarizzato e frammentato. Senza un baricentro.
Tuttavia, se, come molti analisti sostengono, a essere messe in discussione sono oggi le coordinate della globalizzazione, è probabile che ci troviamo alla vigilia di una fase politica nuova. Una fase che — si sviluppi da destra o da sinistra — dovrà essere disegnata attorno a tre snodi fondamentali.
In primo luogo, se, come ha scritto di recente J. Sullivan, consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, si va verso la costruzione di catene del valore geopoliticamente più avvertite, serve una politica che ridisegni il riposizionamento strategico del nostro Paese in campo industriale, energetico e commerciale.
In secondo luogo, è necessario chiarire come si vuole governare la complessa transizione verso un modello più sostenibile (in senso economico, ambientale, sociale) che sia al tempo stesso efficace e giusto: gli ondeggiamenti su questo punto confondono l’elettorato e confermano l’idea che alla fine niente possa davvero cambiare.
In terzo luogo, la nuova stagione digitale apre opportunità ma sconvolge molti assetti: nel mercato del lavoro, nella scuola, nella dinamica della democrazia: quale è la strategia per portare il Paese dentro questo nuovo ambiente tecnologico senza subire una nuova colonizzazione tecnologica?
Questi tre processi scardinano la logica politica degli ultimi anni, che si è giocata sull’asse apertura/chiusura, globalisti/populisti. Semplicemente perché da un lato non si può rimanere fuori da questi processi (la chiusura in quanto tale non ha senso) dall’altro vi si può entrare solo in presenza di determinate condizioni sociali e istituzionali che vanno costruite politicamente (l’apertura senza condizioni non regge).
In realtà, se si guardasse il Paese si scoprirebbe che esiste un ampio consenso sull’idea che riconosce alla politica (a livello nazionale, europeo, locale) un ruolo importante nel creare le compatibilità geopolitiche per lo sviluppo economico; che è necessario incamminarsi seriamente nella direzione di una transizione ecologica possibile, vista però non solo in chiave tecnologica, ma anche come salto culturale e sociale; che non bisogna aver paura del mondo digitale, pur nella consapevolezza che per farne parte come protagonisti e non come servi occorrono condizioni che oggi non ci sono; che si può essere orgogliosi dei valori occidentali di democrazia e libertà, senza dimenticare l’urgenza di una loro continua rigenerazione. A cominciare dal contrasto alle disuguaglianze.
Si tratta di uomini e donne che danno il loro prezioso contributo nei tanti settori della vita sociale: nel settore manifatturiero, dove la crescita dell’export conferma la qualità delle nostre imprese e delle loro maestranze; nel mondo della scuola, dell’università, della ricerca, della pubblica amministrazione dove, pur in assenza di un adeguato riconoscimento sociale (ed economico) si continua a pensare che ogni singola persona è importante per il nostro futuro comune; nel mondo della sanità dove, dopo i mesi drammatici del Covid, non si vuole accettare uno smantellamento silente; nel mondo dei servizi, dove si continua a ricucire il fragile tessuto urbano e territoriale del Paese; nelle piccole medie imprese artigiane e commerciali dove ci si spende con passione, dedizione, creatività; nel terzo settore e nel volontariato dove, nonostante tutto, si crede nel potere integrativo della gratuità e del dono.
Questi gruppi sono disomogenei, disorganizzati, frammentati. Non riescono a riconoscersi perché non hanno un linguaggio e una visione comuni. Spesso sono in balia di ondate emotive e vere e proprie strategie di disinformazione. Eppure sono quelli che tengono in piedi il Paese e che condividono l’interesse a un suo sviluppo armonico.
Il problema politico è che questo nuovo baricentro non si dà più come semplice derivata della crescita economica (che ovviamente rimane importante). Ma può costituirsi solo come risultato di un discorso e di una azione politica e amministrativa consapevole, in grado di porsi come mediatrice efficace tra le vite delle persone e i grandi processi di cambiamento. Tra locale e globale, tra io e noi.
Invece che polarizzarsi marcando identità o lanciando slogan, cio che si chiede alla politica è di lavorare concretamente per dare consistenza a questo nuovo ceto medio potenziale, aiutandolo a riconoscere ciò che lo accomuna invece di ciò che lo divide. E creando la cornice istituzionale e culturale più adatta per la sua piena emersione. A partire dal Pil, ma andando oltre il Pil.

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