Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Lo strappo di Renzi aveva avuto come primo riflesso una reazione «alta», un patto di legislatura tra M5S e Pd rivelatosi poi complicato. E nelle ultime ore si assiste a un ulteriore ridimensionamento delle ambizioni

Ci vorrebbe la maestria di un regista come Federico Fellini per immortalare la mediocre «prova d’orchestra» alla quale si sta assistendo. Il finale non è ancora chiaro, ma l’assenza di una direzione e di una visione è fin troppo evidente. Giorno dopo giorno, i protagonisti della crisi di governo mostrano una preoccupante inclinazione a ridurre le ambizioni di rilancio.
Lo strappo inopinato di Matteo Renzi aveva avuto come primo riflesso della maggioranza la proposta di stipulare un patto di legislatura tra M5S e Pd: una reazione forte, «alta», rivelatasi però complicata alla prova dei fatti. Il secondo passaggio è consistito nella sfida del premier Giuseppe Conte ai renziani in Parlamento. Avanti in Senato, pronti a calamitare i cosiddetti «responsabili», in piena coerenza con la tradizione italiana del trasformismo. Ambizione ineccepibile dal punto di vista costituzionale, meno da quello politico e ancora meno per un grillismo che per anni ha raffigurato i «voltagabbana» come delinquenti. Bastava il risultato: arrivare a 161 voti per dimostrare che Renzi non è necessario e magari spaccargli anche il gruppo parlamentare.
Ma nelle ultime ore si assiste a un ulteriore ridimensionamento delle ambizioni. Si va alle Camere, e si prendono più voti delle opposizioni. E, paghi di questo risultato minimo, si procede nella trattativa con chi ci sta. Il canovaccio sembra affidato a una sorta di forza di inerzia, figlia dell’«impossibilità» del voto anticipato e di un’improvvisazione che si affida a pochi, traballanti punti fermi. Il primo è che il premier viene considerato dai 5 Stelle e da una parte del Pd come un elemento di equilibrio non sostituibile. Renzi, che vuole sloggiare Conte, sembra aver compiuto il miracolo alla rovescia di compattare i grillini intorno a Palazzo Chigi. Dopo mesi di manovre più o meno striscianti per sostituirlo, i vertici del Movimento adesso abbracciano il «loro» presidente. È vero che anche Iv sembra reggere, nonostante due defezioni alla Camera che, per quanto simboliche, annunciano potenziali scricchiolii nel gruppo: il fatto che Renzi anticipi l’astensione e non il voto contrario al governo sembra teso a evitare defezioni tra i suoi.
Ma in questa prova muscolare è il M5S a far pesare i suoi numeri. Per farlo è disposto a legittimare i bersagli di ieri, e a perdere un altro pezzo di una credibilità già compromessa. La parola d’ordine è governare comunque, pur di esorcizzare le urne; di rappattumare la maggioranza frantumata da Iv, senza Iv, o al limite di arrivare a un terzo governo Conte. Dev’essere solo chiaro, nell’ottica dei 5 Stelle, che la «legislatura populista» è cominciata nel 2018 e dovrebbe chiudersi nel 2023 con Palazzo Chigi in mani grilline. Eppure, se i margini continuano a mostrarsi risicati, rendendo i veti impraticabili, a un certo punto bisognerà ricominciare a trattare, senza sognare un’umiliante «pace cartaginese»; oppure prepararsi ad aprire una nuova fase. Contano poco le formule. Interessano di più l’esigenza di non sprecare altro tempo, la sostanza politica, e la consapevolezza che un governo privo di solidità e di credibilità internazionale, e legittimato a metà dal Parlamento, sarà il migliore spot per gli avversari dell’Italia in Europa.

A.N.D.E.
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