Fonte: Corriere della Sera
di Marzo Brera
Il presidente della Repubblica non farà il suggeritore, l’iniziativa è tutta nelle mani del premier Conte che deve decidere quale mosse fare
Alle 18.30, la voce eccitata e un’ottava sopra il normale, Matteo Renzi riporta indietro l’orologio della crisi, come se i tentativi d’avvicinamento del premier non ci fossero stati. Le ministre di Italia viva dunque si dimettono, ma lui dice d’esser pronto a restare «nella maggioranza, se ci vogliono». Accusa Conte di aver creato un «vulnus democratico», eppure giura: «Non ho pregiudiziali nei suoi confronti», che suona però come un «Giuseppe, stai sereno». E ripete che «non siamo noi ad aprire la crisi». Anzi, puntualizza che, per senso dello Stato, loro sono «pronti a votare le misure anticovid, lo scostamento di bilancio e il decreto ristori».
È una mossa giocata sul filo dell’ambiguità, quella renziana, tanto è vero che fino a notte fonda erano in molti, fra politici e giornalisti, a non aver concordato su un’identica esegesi del discorso del rottamatore. Di fatto, la rottura dell’alleanza è dichiarata (come si fa quando si chiude una mano di poker dicendo «andiamo a vedere»), ma non ha il crisma dell’ufficialità. Non ancora almeno, e questo continua a tenere il Quirinale fuori dal gioco. Infatti, adesso tocca al presidente del Consiglio trarre le conclusioni di questa fase della partita e fare a propria volta una contromossa. Assumendosene in prima persona la responsabilità, visto che Sergio Mattarella non farà il suo suggeritore — tengono a puntualizzare nell’entourage quirinalizio — così come non ha mai voluto essere considerato (né essere in senso assoluto) «la terza gamba» del governo. Il suo Lord Protettore, insomma.
Di tutto questo si è parlato, ieri all’ora di pranzo, quando Conte è salito sul Colle per riferire al capo dello Stato le correzioni al Recovery Plan e soprattutto per anticipargli la chiave dell’apertura che si preparava a fare verso Renzi. Con un passo indietro sull’ipotesi di sostituire la pattuglia di Iv con un gruppo di «responsabili». E con un passo avanti verso la ricucitura degli ultimi strappi attraverso un patto di legislatura. Mattarella l’ha ascoltato, compiaciuto nel veder finalmente prevalere uno spirito di mediazione dopo che in troppi (Renzi in primis, ma non solo lui) hanno usato parole che tagliano i ponti del dialogo. Gli ha chiesto una sola cosa: «Cercate di uscire velocemente dalla condizione di incertezza in cui versa il governo, c’è l’allarmante situazione causata dalla pandemia da affrontare… Per il resto, la sintesi sta a lei».
Un’incitazione che mette Giuseppe Conte davanti a tre strade, secondo le istruzioni per l’uso che devono pur essere note al premier. 1) Conte prende atto della sortita di Renzi, va al Quirinale e si dimette, sperando che le dimissioni siano respinte o di avere un reincarico per prendere tempo e negoziare a tutto campo (per inciso: nella Prima Repubblica si faceva così). 2) Conte va subito a riferire alle Camere, parlamentarizzando una crisi nata al buio e annusando lì, sul campo di tutte le manovre, se esistono margini per rilanciarsi rispetto all’azzeramento di Palazzo Chigi preteso, di fatto, da Renzi. 3) Conte sfida il rivale in Aula chiedendo la fiducia e avendo magari intanto contrattato il sostegno dei fatidici responsabili (opzione che potrebbe far storcere il naso a Mattarella, il quale ha sempre evocato il bisogno di «maggioranze solide e con un perimetro ben chiaro», altrimenti qualsiasi governo rischia d’essere costruito sulla sabbia). Tre scelte di un percorso nel quale il presidente non può entrare. E alle quali va comunque aggiunta la possibilità di perdere un po’ di tempo per prendere tempo, insistendo per qualche giorno sul negoziato fra le parti in causa. Sapendo tutti che Mattarella considera di essere stato anche troppo paziente, fino ad ora…